Articoli: Ma che cos’è la femminilità in azienda

Due copertine, di Economist e di Time, hanno recentemente messo il mostro in prima pagina. Il mostro sono le aziende renitenti a capire quanto vantaggio possono trarre dalla valorizzazione delle donne. Conterà il fatto che, per esempio, oggi le donne in America sono esattamente la metà della popolazione occupata? E che questo ha scardinato ogni idea tradizionale di ruoli di genere? Per capirne la portata si veda il recente utilissimo rapporto Schriver1.
Venendo a noi, all’Italia, da quanto tempo sentiamo dire che la differenza è un valore, che ciò che può sembrare un problema può essere invece un vantaggio per l’azienda? Giustamente, le donne fanno leva su questa motivazione -la nostra presenza migliora le aziende-a sostegno delle proprie richieste. Perché le aziende cambiano le loro politiche e la loro cultura non per senso etico e di equità, ma se capiscono che ne hanno un vantaggio.
Purtoppo però il diversity management non è affatto entrato a far parte della strategia delle aziende italiane.
Va detto che le best practices ci sono, e nemmeno poche, si dovrebbe semmai cercare il sostegno in questa direzione da parte delle associazioni imprenditoriali. Ma qui parliamo della cultura aziendale prevalente. Una cultura così resistente al problema che in una recente indagine presso donne manager di alto livello, si rileva un netto cambiamento di orientamento sugli strumenti necessari per cambiare. Se fino a pochi anni fa la maggioranza delle donne era fiduciosa di potersi affermare per merito e capacità, oggi prende spazio l’opinione di chi ritiene necessario forzare il blocco verso il vertice con le quote rose. Se la cultura non cambia, il cambiamento necessario deve avvenire per legge, come in Norvegia. O con scelte di un vertice che impone questa politica al management e all’HR. Come in certe multinazionali, tra le quali anche i due colossi bancari italiani.
Resta il fatto che da noi l’interpretazione corrente di diversity management è più o meno questa: esiste un management ‘normale’, rispetto al quale si definisce la ‘differenza’ di nuovi soggetti manageriali, le donne. Che portano uno scarto rispetto al modello. Negativo, si sottintende, perché se in questa società il modello di riferimento continua ad essere l’uomo e tutto ciò che è maschile, le donne sono inadeguate per definizione.
Data questa premessa, anche a fronte di reali esigenze espresse dal mercato del lavoro qualificato, la reazione non è la valorizzazione delle differenze, ma la normalizzazione. Ovvero adattare, accettare alcune componenti di diversità che possono essere un’aggiunta utile e innocua agli standard consolidati. Accettare un po’ di femminilità, come una specie di cacio sui maccheroni. Per il resto, si continua a valutare in base al modello di ruolo affermatosi nelle aziende storicamente maschili. Come dire: sappiamo che siete diverse e non proprio adatte, ma vi insegniamo noi le regole, e se le rispettate vi lasciamo entrare nel gioco.
Ma qui è successo qualcosa. E’ successo che è entrata nel gioco una generazione di donne non più ristrette ad un’élite, non più isolate e costrette quindi a giocare con le regole date, a comportarsi come uomini. Oggi queste donne, invece, portano consapevolmente nel lavoro la loro differenza di bisogni e di visione, mostrano che le regole non sono neutre e buone per tutti, e che non esiste un unico stile di management.
Queste pratiche comportano allora un cambiamento nel modo di intendere il management?
Direi di sì. E non mi limito qui ad esprimere una mia opinione. Mi baso sulle evidenze di un lavoro di ricerca che ho svolto recentemente con un gruppo di donne manager.2
Per cominciare, compare molto spesso una diversa concezione del potere: le donne cercano il ‘potere di fare’ piuttosto che il ‘potere di dominare’. Propongono uno stile di guida, un modo di essere capo fondati sull’autorevolezza personale piuttosto che sull’autorità di ruolo. Difficilmente, nelle pratiche adottate da donne manager, si trova una scissione tra persona e ruolo.
Questa è una importante differenza. Le donne portano anche nel lavoro la loro interezza di persone: la realizzazione nel lavoro è per loro una scelta imprescindibile, ma non totalizzante. E pensano che ciò non solo sia giusto ma anche compatibile con il loro ruolo manageriale.
Ecco dunque una forte critica dei modelli organizzativi, soprattutto per quanto riguarda la gestione del tempo, sempre un fattore critico per le donne, dato che in generale continuano ad avere le maggiori responsabilità nella gestione familiare. Rispetto all’organizzazione del tempo
le donne hanno motivo di denunciare rigidità e ritualità che sono insensate anche per l’azienda. Penso soprattutto alla richiesta di una disponibilità e di una presenza fisica in ufficio illimitata, con conseguenti rigidità di orario, a prescindere dalle reali necessità e utilità, a prescindere da come quel tempo viene veramente impiegato: il cosiddetto face-time.
Le scelte organizzative, alla luce di una presenza femminile nel management, possono essere convenientemente riformulate: contro le carriere presenzialiste, un sistema premiante realmente meritocratico, fondato su lavorare e valutare per obiettivi. È così possibile una gestione flessibile della presenza in ufficio, quando e quanto è veramente necessaria, in funzione delle esigenze reali dell’azienda, ma anche tenendo conto di quelle della persona. Dunque non concessioni costose, ma una concentrazione dell’attenzione sui risultati.
A partire da questo, anche i collaboratori sono visti come persone a cui si dà attenzione, nella consapevolezza che se si sta meglio si lavora meglio. L’autorevolezza nei loro confronti si fonda non solo sulla razionalità e sull’autorità di ruolo, ma anche su leve affettive -come attenzione, coinvolgimento e riconoscimento- capaci di motivare le persone agli obiettivi.

Su questo punto specifico, però, vale la pena di fermarsi un momento. Perché la competenza emotiva, l’attenzione alle persone, la capacità di relazioni, sono indubbiamente una parte importante del bagaglio manageriale. E le donne hanno molto spesso queste attitudini, anche per portato storico, per l’esperienza secolare di agire nel mondo privato degli affetti e della cura.
Ma tutte queste capacità vengono spesso citate come la caratteristica femminile da valorizzare. Come se fosse solo questo ciò che le donne portano nel management, il solo motivo per prenderle in considerazione. Così in azienda si tende a confinarle in ruoli in cui, rispetto a competenze professionali, sembrano prevalere le relazioni tra persone (tipicamente, nelle Risorse Umane). Oppure in aree operative, dove il raggiungimento degli obiettivi dipende molto dalla gestione delle persone.
Insomma, sembra quasi configurarsi una nuova mistica della femminilità in veste professionale.
Mistica, perché così si finisce per lasciare le donne là dove sono sempre state, nella sfera degli affetti e delle relazioni. Se poi sono le donne a scegliere per sé questi ruoli perché se li sentono adatti, oppure li prendono al volo perché queste e non altre sono le possibilità aperte dall’azienda, va benissimo. Ma di mistiche diventate gabbie ne abbiamo abbastanza.
Credo, insomma, che occorra guardarsi dall’avallare una nuova retorica del femminile, una definizione di cosa è la femminilità in azienda fatta ancora dagli uomini. Perché questo significa un progetto di ‘accoglimento’ della diversità limitato solo agli aspetti e ai modi che possono essere integrati negli schemi aziendali già dati. Negando ogni azione tesa a cambiarli.
Ma la differenza femminile e il suo valore in azienda, il contributo femminile all’allargamento degli orizzonti manageriali va ben oltre tutto questo. E non può essere sintetizzato in un elenco di skill specificate (e limitate) con precisione.
La differenza femminile sta, piuttosto, in un atteggiamento complessivo, che si manifesta nella prevalenza della persona sul ruolo, dello schema personale sullo schema di ruolo. Le donne si rapportano al lavoro prima in base al proprio carattere e alla propria visione, e solo dopo si confrontano con norme e modelli, sempre sgomitando un po’ per adattarli a sé.
Per gli uomini è normale adattarsi agli standard, non solo perché li fanno loro, ma anche perché costituiscono una difesa e una comodità. E’ più facile dire ‘si fa così’ che essere se stessi lavorando.
Se ci si adegua a un modo di fare consolidato, nessuno potrà dirci che abbiamo sbagliato. Ma in questo modo si finisce per ingabbiarsi in modelli di management che tagliano fuori ogni capacità e ogni visione diversa.
Dalle donne vediamo emergere uno stile più personale, meno definito in senso organizzativo. Non un modello diverso ma altrettanto fissato in codici, potenziale nuova gabbia. Piuttosto, un metamodello.
La via femminile alla leadership forse sta semplicemente in questo: nell’essere se stesse, nel non modificare il proprio stile personale, nel non assumere atteggiamenti finti e forzati. Nel non costringersi dentro corazze inadatte ad un corpo diverso.
Dunque, invece di parlare di valorizzazione delle differenze in base a un’idea di femminilità aziendale codificata, che magari non è la nostra, si potrebbe cominciare a lasciarci libere di lavorare come vogliamo. Libere di essere equamente valutate e premiate -cose non così scontate- per quello che facciamo, per i risultati che portiamo.

Luisa Pogliana.
Per Direzione del Personale, numero sul Diversity Management. Aprile 2010

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