Responsabilità e fiducia. Un articolo di Luisa Pogliana (estratti dal libro “Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende”, in uscita a settembre, Guerini)

Organizzazioni senza gerarchia, auto-organizzazione, co-opetizione, accountabilty. Sono le parole della moda attuale nelle discussioni aziendali. Ci sono sempre delle ondate che attraversano il pensiero di management nelle sue varie articolazioni. Ma, scontato l’effetto moda, quello che interessa è il perché di quell’onda, in quel momento.  Le parole-chiave sono sintomi: per esempio, dietro il solito inglese, accountability rimanda all’affidabilità, al coinvolgimento, al farsi carico. Tutte queste parole ci parlano, insomma, di responsabilità e di fiducia. Forse perché le aziende (alcune, almeno) si stanno rendendo conto che dove il controllo comprime, la fiducia libera. Che una responsabilizzazione diffusa porta a un salto di qualità nei risultati.

La rigidità e la ridondanza di strutture gerarchiche è oggi il punto debole nelle aziende: rallenta il processo decisionale e l’esecuzione, blocca in ruoli limitati le persone che così perdono la visione complessiva e la possibilità di esprimere le loro capacità. E ha un altro costo elevato: la concentrazione delle attività dirigenziali sul controllo (oltre che sulle loro carriere) invece che sullo sviluppo. Ma il controllo è sempre un’illusione di garanzia del funzionamento dell’organizzazione, della redditività del lavoro. In realtà un’azienda funziona meglio se tutti si assumono la responsabilità del loro lavoro. Se a tutti viene richiesto di contribuire nelle loro possibilità all’andamento e ai risultati dell’azienda, creando le condizioni perché ciò avvenga. Se si passa ad un modo di lavorare e di perseguire gli obiettivi aziendali fondato sulla responsabilizzazione .

In questi tempi tutte le aziende chiedono di “dare il massimo”. Ma chiederlo dentro uno schema di comando-controllo significa solo intensificare il lavoro, lavorare di più. Responsabilizzare ha più a che fare con la qualità del lavoro: fare emergere idee e capacità nuove, con il solo vincolo di generare valore per la comunità-azienda. Valore adeguatamente redistribuito. Questo orientamento -molto detto e poco praticato- lo vediamo invece ormai da alcuni anni messo in pratica in progetti pensati e realizzati soprattutto da donne manager. Progetti la cui differenza sta proprio in questo: non sono aspirazioni o teorie, sono cose effettivamente fatte.

Possiamo dire che c’è una ragione se questo orientamento viene più da donne che da uomini. Responsabilizzare ha a che fare con il potere, nel senso che ne contrasta la logica. E le donne, arrivate nel management anche in ruoli decisionali alti, in prevalenza non si sono adeguate ai codici di potere che in quei luoghi dominano: comando, dominio, controllo, arbitrio, autoreferenzialità. Esercitano invece il loro ruolo come responsabilità verso l’azienda e chi vi lavora, usano l’autorità di ruolo non per potere personale ma in funzione di uno scopo. Dunque più facilmente le politiche attuate da queste donne sono fuori dallo schema gerarchico capo-collaboratore (trasmettere ordini e controllare l’esecuzione). Sono invece mirate a far crescere l’autonomia decisionale e la responsabilità di tutti rispetto al raggiungimento degli obiettivi. Convinte che lo sviluppo dell’azienda passa anche dalla crescita, responsabilizzazione, remunerazione delle persone che vi lavorano. Un rapido esempio aiuta a capire come può essere nella realtà.

Una manager responsabile di un importante settore di business ha trovato una soluzione organizzativa totalmente nuova, stimolata dal desiderio di avere un figlio senza bloccare la sua carriera. La soluzione è stata puntare sulla crescita della professionalità e della capacità decisionale di tutti i collaboratori, perché il gruppo potesse funzionare con sufficiente autonomia senza la sua continua presenza, sulla base di direttive essenziali. Con un intenso lavoro di team building e di apprendimento nella pratica, ha costruito un nuovo schema organizzativo: lavorare in gruppo a responsabilità condivisa, ognuno e tutti insieme rispondono dei risultati, e vengono premiati in base a questi. La crescita del gruppo di lavoro ha fatto crescere i risultati aziendali in modo imprevisto, tanto che quell’organizzazione è diventata il nuovo paradigma per tutta l’azienda, a prescindere dalla necessità contingente da cui era partita.

Da un’organizzazione fondata sul controllo si passa a un’organizzazione fondata sull’autonomia e responsabilità di chi lavora. Con risultati oltre le aspettative.  In questa e in altre politiche basate sullo stesso concetto, si è lavorato non sul costo di una persona, ma al contrario su quanto quella persona contribuisce -può contribuire- al risultato dell’azienda. Per questo sono politiche rilevanti anche sotto l’aspetto del patrimonio aziendale. Se si usassero metriche diverse per valutare lo stato di un’azienda, i risultati di quei progetti potrebbero essere portati a valore: l’azienda ha aumentato il suo capitale, perché ha tirato fuori capacità che c’erano ma non venivano utilizzate.

Eppure, nonostante i risultati vantaggiosi, questa è una scelta, come abbiamo detto, poco adottata. Il modello caserma è ancora diffuso, il controllo è una resistente cultura molto italiana. Passare dal controllare tutto e tutti, a dare invece autonomia ai collaboratori (che agiscono comunque con vincoli di obiettivo), fa paura soprattutto a chi ha come scopo primario la difesa del proprio potere. E vede il rischio di delegare o sminuire il proprio ruolo di capo, di perdere il comando. Chi esercita un potere accentratore teme di perderlo trasferendolo in periferia.  Certamente chi è a capo di una organizzazione e avvia questo processo sa che deve trasferire una parte del proprio potere agli altri dirigenti e a tutte le persone chiamate a rispondere di quel progetto. Ma questo non vuol dire che rischia di perdere il proprio ruolo. Chi lavora in un’ottica di responsabilità sa che la responsabilità non è additiva, è come la conoscenza o un sentimento: può duplicarsi, moltiplicarsi. E nei casi di responsabilizzazione diffusa c’è un’assunzione di responsabilità ancora più alta per chi guida quella struttura: definire gli obiettivi individuali e collettivi con processi che mettano in condizione di raggiungerli, creare la fiducia in se stessi e nel gruppo di ogni persona, sperimentare, sostenere, dare strumenti formativi, alimentare la motivazione con riconoscimenti economici e non solo di crescita professionale …

Organizzare il lavoro sulla responsabilità dei collaboratori richiede fiducia, una fiducia che non può che essere reciproca: l’azienda dà credito all’impegno di chi lavora rispetto al raggiungimento (e miglioramento) degli obiettivi, chi lavora dà credito all’azienda che ne avrà vantaggi di crescita professionale e di remunerazione. E’ un cambiamento che richiede un patto tra manager e chi lavora, una garanzia di scambio e di interesse comune. Chi è a capo di quella organizzazione agisce rispetto all’azienda come garante dei risultati, e rispetto ai collaboratori non applica controlli formali che tolgono il senso di libertà e di responsabilità individuale rispetto a quello che fanno. E’ un patto che ogni manager può fare, fa parte della sua discrezionalità. Può scegliere questa strada molto più impegnativa ma con più benefici per tutti. 

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