Un altro incontro al Piccolo Teatro di Milano – Una proposta di Donnesenzaguscio: CENSIMENTO DELLE COMPETENZE

23 febbraio 2011 ore 17.30 – Spazio Eurolab, Piccolo Teatro Strehler
Donna e donne nel Mediterraneo

In occasione della messa in scena dello spettacolo Migraciones Internas, il centro culturale e di formazione La Casa di Vetro, insieme al Piccolo Teatro di Milano, propone l’incontro sul tema
Donna e donne nel Mediterraneo. L’autrice dello spettacolo Migraciones Internas, Ana Fernández Valbuena, racconterà i passaggi di questo progetto di scrittura, tratto parzialmente dalla realtà storica di tante donne e uomini negli ultimi cent’anni.
Guidate da Maria Cristina Koch della Casa di Vetro converseranno con lei:
Angela Calicchio – presidente di Outis – Tramedautore
Sumaya Abdel Qader – scrittrice di origine palestinese autrice di Porto il velo, adoro i Queen
Interverrà Luisa Pogliana – presidente dell’associazione Donnesenzaguscio
Qui di seguito l’intervento.

CENSIMENTO DELLE COMPETENZE

Alcuni mesi fa ero all’Università Statale di Milano per una presentazione del mio libro Donne senza guscio, un saggio sulla realtà delle donne manager nelle aziende italiane. Erano venute a parlarne, tra le altre, alcune rappresentanti di istituzioni politiche. A un certo punto vedo entrare una di loro accompagnata da una donna dall’aspetto magrebino, con il velo in testa. Ecco, pensai, perché l’ha portata? Per far vedere come siamo accoglienti e valorizzanti? Conoscendo gli spazi concessi dal nostro mercato del lavoro a queste donne immigrate, di solito ben lontani dai ruoli di donne manager, temevo qualcosa di strumentale. Intanto, dopo gli interventi iniziali, si comincia a discutere. A un certo punto prende la parola proprio quella donna, e racconta di sé.

Quando vivevo in Tunisia -dice- io ero dirigente d’azienda, ed ero anche una di quelle dure, mi facevo valere e ho fatto lavori importanti. Ma da quando sono venuta in Italia trovo un mucchio di difficoltà a fare lo stesso lavoro, nonostante l’esperienza e la qualificazione. Ora un lavoro l’ho trovato, e mi impegna molto. Ma qui non sono solo le aziende a crearmi difficoltà. Siete anche voi, donne italiane, mamme italiane. Io ho due figli, educati ad essere autonomi. Sono sempre stati bene, non c’è mai stato un problema per il fatto che lavoravo e tanto. E’ solo adesso che cominciano i problemi: perché vedono come le mamme italiane trattano i loro figli, e pretendono anche da me di essere trattati così: superprotetti, mamme al loro servizio. Io i sensi di colpa non li ho mai avuti, non sapevo nemmeno cos’erano, ma adesso a causa vostra i miei figli cominciano a farmeli venire. Se volete fare le manager, forse, dovete cambiare un po’ anche voi.

Ecco qua, mi sono detta, oggi ho preso la mia lezione. Donne che vengono dall’altro lato del Mediterraneo, come quelle dall’altro lato dell’oceano, hanno qualcosa da insegnarci su come essere manager e mamme. Ci mostrano i nostri errori, e lo fanno fondandosi sulla loro cultura. Una cultura che noi pensiamo di conoscere, ma spesso non andiamo troppo oltre l’idea di arretratezza rispetto a noi, soprattutto per quanto riguarda le donna. Ma c’è di più nel ragionare su questo rapporto. Noi donne impegnate in percorsi professionali possiamo fare il nostro lavoro solo se abbiamo accanto queste donne immigrate. E’ il loro lavoro che ci permette di fare con un po’ più di tranquillità il nostro. Possiamo delegare a loro la gestione della nostra casa, una parte significativa della cura dei nostri figli, e dei nostri familiari anziani. Sono lavori modestamente retribuiti, ma soprattutto lavori senza una prospettiva di miglioramento. Come scrive Saskia Sassen, queste donne “formano una classe invisibile, priva di potere, di lavoratrici al servizio dell’economia globale, senza possibilità di avanzamento. Questi tipi di mansioni non vengono mai rappresentati come una componente dell’economia globale, ma in realtà fanno parte dell’infrastruttura essenziale per la gestione del sistema economico”.

Lavori invisibili, persone invisibili, intese solo come massa indifferenziata. Ricordiamoci cosa ha voluto dire per noi la parola ‘marocchini’: tutte le persone della prima ondata di immigrazione dall’altra riva del mediterraneo. La parola ‘marocchini’ è poi stata sostituita da un’altra altrettanto stereotipata rispetto al loro ruolo lavorativo: ‘vucumprà’. E qui pensiamo anche ad un altro aspetto che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. La signora che si prende cura della mia casa ha un diploma di informatica, quella che lavora da mia suocera era insegnante di fisica. Chi non conosce qualche donna laureata o dotata di alto potenziale, costretta a lavorare come badante o in un’impresa di pulizie? Dovremmo cominciare a guardare in faccia la commessa, il barista, gli altri immigrati che incontriamo per strada, e pensare: probabilmente, un talento sprecato. Ci sono qui da noi lavori che non vogliamo fare, e ci fa comodo vedere queste persone come destinate a questi lavori. E d’altra parte i lavoratori italiani difendono, in questo mercato del lavoro difficile per tutti e tutte, i posti di lavoro più qualificati. Così si frappongono per i lavoratori e le lavoratrici immigrati infiniti ostacoli, anche formali: il valore legale del titolo di studio è solo un esempio. Eppure queste persone, alle capacità aggiungono la forte motivazione (spesso le donne sono le più determinate, motivate, spesso sono loro le apripista). E aggiungono una diversità culturale -aver vissuto in luoghi diversi, conoscere più lingue, saper osservare il nostro stile di vita dall’esterno, sapersi confrontare con culture diverse- che ha un preciso valore di mercato. Gli immigrati potrebbero aiutarci a migliorare la nostra capacità di agire sul mercato globale, portando una maggiore possibilità di capire le altre culture. Se il futuro delle nostre aziende sarà sui mercati internazionali, sempre più sarà necessario un management multiculturale. E’ lì, anche lì, che è importante integrare persone di altre culture.

Per questo sarebbe molto fruttuoso per le aziende, oltre che giusto da un punto di vista etico, portare alla luce e valorizzare queste risorse. Con una rilevazione delle competenze di lavoratori e lavoratrici immigrati. Un censimento non fondato su una descrizione di competenze data a priori (cioè, vediamo se è adatto o adatta a fare un certo lavoro per cui c’è richiesta). Perché per questa via si finisce per trovare quello che si cerca. Ma cercando ogni capacità: quello che sa fare, quali lingue conosce, titoli di studio non legali da noi e spesso non dichiarati per timore di non essere accettati per lavori manuali. Un’operazione così richiede ovviamente il coinvolgimento di diversi attori economici e sociali. Penso ai sindacati, alle associazioni imprenditoriali. Difficile mettere in moto una simile macchina. Ma è importante cominciare da qualche parte. Dal mio punto di vista, vedo che questa operazione si può fare a livello aziendale. Quasi nessuna azienda l’ha fatto, ma qualcuna ha provato e ne ha tratto risultati: proprio guardando a questo caso, fa impressione scoprire che abbiamo già in casa le persone che magari stiamo cercando sul mercato.

Penso anche che per fare questo lavoro siano più attrezzate le donne. Perché noi, donne manager, abbiamo esperienza di quante e quali sono le risorse sprecate oggi nelle aziende italiane. Semplicemente, le risorse sprecate siamo noi. Risorse di competenza e motivazione, non riconosciute per stereotipi culturali dei vertici aziendali maschili. Può sembrare ardito accostare la nostra situazione, per molti aspetti già di privilegio, al lavoro delle donne immigrate. Ma noi possiamo capire, e abbiamo voglia di cambiare le cose. Perciò sono qui a parlare, come donna manager, e come associazione: perché abbiamo una diversa idea di come si possano governare le aziende e cerchiamo di aprire spazi a questa visione. Anzi, voglio fare un esempio addirittura più estremo. Recentemente, dato che le posizioni di vertice nelle aziende italiane restano fortemente chiuse alle donne, la PWA -Professional Women Association-, e l’Osservatorio sulle Differenze della SDA Bocconi, hanno fatto un censimento delle donne che hanno tutti i requisiti per accedere a queste posizioni, e hanno presentato un elenco. Come dire: eccole qua, nome e cognome, le donne competenti che non volete vedere. Ecco, io credo in una operazione simile. Possiamo dire che, come in azienda servono politiche tese a permettere la piena espressione professionale delle donne, servono anche azioni simili rispetto agli immigrati. E prima di tutto rispetto alle immigrate, doppiamente svantaggiate dalla cultura aziendale dominante in Italia.

Ho iniziato con un episodio reale e chiudo con un altro. Ho detto che qualche azienda ha provato a fare questa operazione e ne ha tratto risultati. Si tratta di una grande multinazionale italiana, con una quota consistente di dipendenti immigrati. Qualche anno fa ha fatto questo censimento delle competenze. Tra i risultati, un caso clamoroso: in una attività di servizio si scopre Orazio (cambio il nome), giovane nord africano. Parla cinque lingue, ha due lauree, di cui una in informatica, specialista di una serie di sistemi informatici avanzati. Subito inserito nella direzione ICT, ha lavorato a progetti importanti e innovativi. Speriamo che altre aziende imparino da questa esperienza, credo che così possiamo trovare anche molte donne come Orazio, forse meglio. Noi siamo pronte a collaborare.

 

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