di Giordana Masotto
Il libro di Luisa Pogliana Le donne il management la differenza. Un altro modo di governare le aziende (Guerini e Associati 2012)* non è il manuale delle buone pratiche della manager femminista e neppure l’inchiesta nel mondo delle donne d’azienda. Se così fosse, credo non mi avrebbe interessato granché.
Invece: dà conferme di alcune cose che andiamo pensando da tempo nel Gruppo lavoro della Libreria delle Donne e nell’Agorà, ci fa conoscere più da vicino cose che stanno accadendo/cambiando e ci aiuta a fare le domande giuste su quello che ancora non sappiamo.
Se nel primo libro di Luisa Pogliana, Donne senza guscio, le manager interpellate esprimevano soprattutto sofferenza rabbia ed estraneità, qui prendono forza, fanno outing. Questo mi interessa molto.
Mi interessa vedere come donne che vivono e lavorano nel potere – hanno un certo grado di potere e sono le prime interpreti del potere apicale – decidono di stare lì senza tradire se stesse e incominciano, loro, a dettare regole, senza accontentarsi di essere ottime esecutrici di disegni altrui. Quanto queste regole siano differenti, se mettano in discussione/cambino il sistema dato e se lo facciano visibilmente, è quello su cui è utile interrogarsi. Insomma: senso politico ed efficacia politica.
Mi interessano i passi di queste donne, equilibriste esperte che stanno imparando a camminare sull’orlo di un potere da cui non vogliono essere neutralizzate, donne che non vogliono rinunciare alla loro forza. Equilibriste: nel nostro agire politico c’è sempre un fare la spola tra territori differenti (libertà e necessità), muri da attraversare (Muraro), il moto perpetuo innescato dalla presa di coscienza, che una volta partito non si ferma più.
Il libro comincia addentrandosi nel potere, il lato oscuro del potere. Opaco e irragionevole. Le donne che qui prendono la parola mettono in luce la mancanza di razionalità che c’è in azienda, come vediamo anche nell’economia: tutti ambiti che si ammantano di razionalità, nascondendo che la ratio prevalente è il dominio e il controllo.
La prima reazione, disagevole ma preziosa, può essere l’estraneità.
Anche io ho fatto questa esperienza: in azienda mi sentivo straniera, di passaggio in un paese di cui mi mancavano le mappe. Volevo lavorare lì dentro ma senza tagliare i ponti con il mio paese. Non soccombere ma neppure diventare una spostata o una mutante.
Questo senso di estraneità è anche una ricchezza da non perdere, perché – come si sottolinea – a differenza del senso di esclusione, genera un punto di vista fecondo. Libere di essere se stesse: tutto il libro racconta una voglia delle donne di esserci senza perdersi.
Partire da sé
La prima conferma che ci viene da queste storie è la forza del partire da sé. Queste manager non avevano una strategia e neppure modelli a cui aderire. Puoi incominciare ad esserci quando scopri – o scegli – di essere modello a te stessa.
Partire da sé, al lavoro, produce un primo fatto, che è una conferma per chi ci ragiona da tanto tempo: la centralità della maternità. La maternità infatti è il momento in cui l’intreccio vita/lavoro appare in tutta la sua irriducibilità. Anche le nostre protagoniste, partendo da sé, ribadiscono la irriducibile complessità di questa esperienza e dicono che non può essere affrontata con le normali, benché poco applicate, politiche conciliative.
Partire da sé perché le idee lievitano insieme alla pancia (Anna Deambrosis). La maternità dà forza contrattuale e visionarietà, l’abbiamo visto anche con le madri lavoratrici dell’Agorà.
Ma tenere conto della complessità vuol dire dare voce anche al desiderio professionale, specie al rientro. Dare a ogni donna la possibilità di ragionare e diventare consapevole dei propri desideri. Dare spazio e voce perché ogni donna ragioni sulla propria identità lavorativa, non togliere di mezzo il problema con le famose pratiche conciliative.
Collego al partire da sé anche un altro punto forte di queste esperienze: privilegiare la modalità cooperativa come espressione di forza e non di debolezza. È un percorso di consapevolezza: se mi do valore posso darlo anche ad altri, sono fonte di valore e di riconoscimento, non serve competere per sottrarre ad altri un po’ di valore, se tu puoi accrescere il valore circolante. È la via della gratitudine piuttosto che quella dell’invidia.
Quanto al desiderio di visibilità – altro elemento comune – vi propongo una bella citazione di Diana Sartori: “qualcosa che riguarda un desiderio su di sé, quello di eccellere mostrando chi si è, rivelandosi agli altri. Non un desiderio narcisistico di conferma della propria identità, quanto di ricerca ed esposizione pubblica agli altri per scoprirla manifestandola e così diventando chi si è”.
In questo modo il desiderio di eccellere si inserisce in uno spazio di relazione, diventa agire politico.
Pratica politica
Il secondo punto che mi preme sottolineare è un passo successivo al partire da sé.
I problemi posti dalle donne al mondo del lavoro infatti, possono essere un momento di ricchezza, di rottura degli orizzonti, di immaginazione al lavoro, purché non ci si applichi all’opera da sole, ma ci si ingegni a cambiare gli schemi, restando ancorate alla propria esperienza e a quella delle altre.
E allora diventa imprescindibile avere altre con cui parlarne e confrontarsi, decidere di darsi autorevolezza, andare fuori dall’azienda, farne parola. Questo è il passo successivo: affermare il valore politico del proprio agire.
Come stanno facendo queste manager che si sono date un’associazione, Donnesenzaguscio. Come fa Luisa Pogliana nella sua opera di relazione politica.
Efficacia politica
C’è infine un ultimo punto su cui non possiamo non interrogarci. E cioè il senso, l’efficacia politica. Se vogliamo evitare un inconsapevole slittamento dalla politica (relazione più o meno conflittuale tra differenti) al problem solving, a una razionalità tecnica umanizzata dalle donne. Se non vogliamo autolimitarci nel territorio che si sente di poter controllare, evitando ciò che è connotato dal maschile (anche quando è gestito da persone di sesso femminile). Limitarsi ad agire là dove la fattività e lo stare aderenti a sé è controllabile, evitando i conflitti ad alto impatto simbolico.
Sappiamo che tutto ciò in genere si traduce di fatto in cancellazione.
È necessario pensare in grande, puntare più in alto, immaginare un lavoro che incorpori la differenza femminile, che confligga, dettando nuove regole del gioco con cui chiunque sia costretto a confrontarsi. È la sfida simbolica. Per la quale dobbiamo trovare altri criteri di giudizio rispetto a quelli correnti in ambito aziendale.
Nel libro se ne intravedono alcuni:
– Nominare quello che si sta facendo. Mostrare quello che già si è potuto fare e come.
– Non pensare di poter fare tutto da sole: meno onnipotenza (e individualismo e solitudine) e più forza. Consapevoli, come dice il femminismo radicale, che la soggettività nasce in un luogo di scambio, di relazione, e che questo è un modo politico, non amicale o consolatorio.
– Fare invenzioni nel linguaggio, evitando i riferimenti deboli al domestico (buon senso della massaia!). Consapevoli che il linguaggio è essenziale per fare la realtà.
– Consolidare i risultati rendendoli meno aleatori. Per esempio sganciandoli dall’alternativa: capo/a buono/a capo/a cattivo/a.
– Ampliare gli orizzonti. Se la scommessa è ripensare il lavoro e l’economia, affermare una diversa idea di sviluppo, va bene tenere come punto di partenza il nesso tempo/maternità/tutto il lavoro necessario per vivere, ma per mettere in discussione le logiche di fondo. Nel libro questo c’è: infatti si prospetta una diversa concezione del management e un diverso modo di concepire l’azienda
E allora parliamo di governo: non più solo il nesso potere e politica, ma governare, prendere le decisioni che modificano la realtà entrando in conflitto con l’ordine esistente.
Nelle aziende dunque si tratta di distinguere, come si fa nel libro, tra differenza delle donne manager, e diversity management. Di distinguersi dal fattore D e da Womenomics. Di distinguere tra diverso governo e governance.
Si tratta di non occultare i conflitti e le ferite. Continuando a interrogarsi su quale sia, in azienda, il bene comune di interessi diversi. Continuando a svelare la vera natura dell’organizzazione del lavoro e a coglierne le potenzialità trasformative.
Tutti compiti grandi. Ma che le nostre manager sembrano ben decise ad assumersi.
* Il libro è stato presentato e discusso alla Libreria delle donne di Milano il 24 novembre 2012