“Ma io voglio tutto”. Un commento di Giordana Masotto al Convegno ‘Le donne il management la differenza’

Una delle frasi che mi colpiscono di più – detta esplicitamente in un intervento ma in altro modo in quasi tutte le storie raccontate – è: “ma io voglio tutto”. Non rinunciare ad alcun pezzo di vita. Io aggiungo: non rinunciare neppure a quella cosa che si vorrebbe sempre superare, tenere a bada: il disagio, l’estraneità. Per superare il senso di estraneità, ci si può mettere subito in competizione. Possiamo dirci: ah, ma questo io lo so fare, e anche meglio degli altri. Che le donne possano essere delle meravigliose esecutrici di disegni altrui è la storia che lo prova. Ma non è questo il punto.  Il punto è che non vogliamo rinunciare. Sappiamo fare bene, ma c’è un pezzo di noi che rimane altrove. C’è un disagio sottile, la percezione di essere lì a camminare in una terra straniera, che parla un’altra lingua. Tu puoi anche imparare quella lingua, ma a che prezzo? Dover dimenticare la tua.

Le donne oggi possono cominciare a dire che non vogliono più essere delle mutanti, meravigliose mutanti, ottime esecutrici di disegni altrui. Basta di questo. E allora bisogna tenerselo ben caro quel “ma io voglio tutto”. Tenersi cara anche l’estraneità, trarne forza: io sono straniera. Perché il mondo in cui camminiamo, la civiltà che è stata costruita, è una civiltà unidirezionale, che si dice universale ma che è strutturalmente maschile.

Il potenziale che le donne possono portare dentro questo mondo del lavoro di oggi – liquido e invadente, con i diritti che ci stanno franando sotto i piedi, – quel potenziale si può esprimere nella misura in cui le donne non si adattano. Tenersi cara l’estraneità dunque, perché noi non vogliamo semplicemente imparare quella lingua straniera, ma vogliamo rifondare un mondo che come minimo deve essere bilingue. Vogliamo semplicemente imparare quella lingua straniera mavogliamo rifondare un mondo che come minimo deve essere bilingue. 

Portare al lavoro un altro modo di parlare, di vedere, di sentire che nasce proprio dalla nostra esperienza e dalla nostra vita a cui non vogliamo rinunciare. Per realizzare ciò che vogliamo, in questo orizzonte vasto, non basta avere le idee chiare. Le esperienze che abbiamo sentito ci suggeriscono una serie di accortezze, provo a dirne tre.

Nominare. Non basta agire e verificare l’efficacia di quello che facciamo, bisogna nominarlo, avere l’intelligenza di costruire un pensiero. Con scelte di linguaggio accorte. Continuando a puntare alto: ripensare che cosa sono le aziende e nominare queste cose senza paura, fare anche il lavoro teorico, continuare a concettualizzare come avete fatto nel libro. Non accontentiamoci del “noi realizziamo”.

Non pensare di poter fare tutto da sole. Noi ce l’abbiamo nel corpo l’onnipotenza. Un conto è non voler rinunciare a elementi essenziali della nostra esperienza, un altro è l’onnipotenza che ci fa dire: io sono la soluzione. È solo nella relazione con altre, nel confronto, che il mio gesto prende quel corpo politico a cui aspiriamo. Non è (solo) una relazione amicale consolatoria, per togliersi dalla solitudine. Sono relazioni politiche perché vogliamo darci questo orizzonte vasto che è ripensare il mondo.

Consolidare i risultati. Sono le regole che si rifondano per tutti e tutte. Vorrei che le cose fossero diverse quando io non ci sono, quando me ne vado. In un certo senso è la mia assenza che dà la misura del segno che ho lasciato.

Un’ultima osservazione: il rischio di una ambiguità. In questi contesti camminiamo sul filo del rasoio. Sentiamo dire spesso: valorizzare le competenze femminili. Poiché quelle maschili hanno prevalso finora, adesso valorizziamo quelle femminili. Come se avessimo una definizione buona una volta per tutte di competenze complementari. Non mi piace attribuire un genere alle competenze. Qui si tratta di donne concrete che, partendo dalla propria esperienza, dicono: io non voglio rinunciare a nessun pezzo della mia vita, dei miei desideri. È questo paradigma che affermano, ed è un paradigma buono per tutti. Queste donne che abbiamo ascoltato non rappresentano “la donna, il genere femminile”. Non si tratta di fare spazio alle donne lasciando che tutto continui come prima. Come diceva una grande scrittrice, Clarice Lispector, “tutto il mondo dovrà cambiare perché io possa esservi inclusa”.

Il convegno si è tenuto a Milano il 28 novembre 2013

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