Pubblichiamo qui alcuni racconti (autobiografici) di Isabella Covili, tratti dal suo libro Microsoluzioni. Piccole storie esemplari di vita d’azienda. Sono esempi di come per cambiare la cultura aziendale non siano necessari grandi progetti, ma si passi anche da una coerente e costante visione tradotta nelle azioni quotidiane. Che costituiscono l’ossatura di uno stile manageriale: queste azioni, spesso micro, sorprendentemente efficaci nella loro semplicità, diventano stile. Il paradigma classico per cui la teoria indica il modo di agire è così sovvertito, a favore di una prospettiva ribaltata, dove sono le azioni dei singoli a definire la teoria. (Luisa Pogliana)
La voglia di capire
In casa mia si è sempre parlato bene. Mio padre aveva fatto studi classici e ci faceva rimarcare i verbi e le parole non corrette. Poi ci si abituava a sentire i nonni parlare dialetto, un dialetto che capivamo bene ma che non riuscivamo a parlare. Né io né mio fratello. Non so perché. Questi sono i pensieri che mi vengono mentre sono alle prese con una relazione e penso a quando all’esame di stato ho avuto un brutto voto nella prova di italiano. Forse era vero che non scrivevo poi così bene come sosteneva il mio professore di italiano che mi aveva presentato come la migliore nella sua materia. Mi manca l’ispirazione per questa relazione che dovrebbe spiegare agli americani della casa madre come sono diverse le leggi sul lavoro in Italia. E spiegare al mio grande capo perché loro (i dipendenti) possono andare via quando vogliono ed io non li posso licenziare quanto l’azienda vuole. Devo anche spiegare perché noi dobbiamo assumere una quota di lavoratori che vengono da una lista speciale chiamata “invalidi” .
Arnaldo era un avviato dalla lista invalidi che mi torna in mente. Era un operaio. Era anche un etilista ed in quella fabbrica noi producevamo liquori. Ma lui ora era guarito e voleva lavorare. Come mettere un topo in una fabbrica di formaggio. Ma era sempre sorridente e contento. E sempre in ritardo. La sera la corriera portava i dipendenti in città e lui faceva quasi sempre aspettare tutti perché non era pronto. Si doveva cambiare e fare bello perché arrivato in città andava a passeggiare per trovare moglie. Era venuto anche in ufficio a parlare con mio marito. Mio marito era un mio collega, aveva la scrivania non lontana dalla mia. Ed allora lui era andato da mio marito, che non si occupava di personale, e gli aveva chiesto di potergli parlare. Mio marito era una persona gentile con tutti i dipendenti. Ma era rimasto un po’ stupito quando Arnaldo gli aveva chiesto come aveva fatto a trovarmi. Proprio così aveva detto “a trovarmi”. Perché lui voleva una ragazza come me (non proprio come me, aveva detto, anche meno, ma circa) perché così si sarebbe sistemato e sarebbe diventato migliore. Ora nessun dipendente potrebbe fare una domanda così, non lavoro più con mio marito. Ma pensando ad Arnaldo mi prende una grande tenerezza. E mi viene difficile spiegare a quei signori cosa significa dare un lavoro ad un invalido.
E penso anche all’altro, quello più piccolo, che soffriva di crisi epilettiche e che cadeva in terra con la scopa in mano. Non la lasciava per tutta la crisi, le sue colleghe guardavano che non si fosse fatto male, poi quando si riprendeva gli davano un po’ di acqua e lui ricominciava a pulire il pavimento. Sono passati 30 anni da quando sono uscita da quell’azienda e lui mi telefona ancora ogni tanto per raccontarmi della sua casa al mare e del fratello che si prende cura di lui. Non riesco mai ad accorciare le telefonate,ma con il cordless non è più un problema, si può ascoltare con attenzione facendo anche altro.
A quelle persone è stata data una possibilità. Ecco cosa dirò nella relazione, che a quei signori è stata data una possibilità, quella che qualcuno gli ha tolto quando sono nati o dopo. So che capiranno. Dovrò spiegare che è la legge che ce lo impone. Ma so anche che lo farebbero anche loro senza essere obbligati se avessero conosciuto Arnaldo e Giuseppe.
Però non voglio e non posso sembrare sentimentale e fuori dal progetto di business. Ci sono anche situazioni diverse.Ci sono anche persone diverse. Come faccio a spiegarlo senza fraintendimenti. Spiego la legge e basta. E faccio alcuni casi. Credo che capiranno. In fondo sono i risultati che contano e se poi quelli sono buoni vuole dire che va bene.
Ho cambiato azienda tre volte. Sono stata fortunata. Le aziende dove ho lavorato sono sempre state belle e floride. Non ho mai fatto i dieci anni in un azienda, poco meno, ma i dieci anni no. Ma i ricordi li ho tutti nella mente e le persone che ho incontrato anche.
Ed ora inizio la relazione spiegando che le leggi per il lavoro in Italia ci sono. Possono essere anche da cambiare. Anzi sono anche già cambiate da allora. E cambieranno ancora. Ma che le aziende “belle” vanno anche oltre la legge perché le persone che le fanno “belle” lo meritano.
La forza della riconoscenza
E’ una giornata un po’ grigia, neppure tanto fredda, ma che non mette di buon umore. Cammino per le strade di cui nessuno conosce il nome perché la zona è artigianale e chi chiede indicazioni deve avere i riferimenti dall’azienda per non invecchiare girando a vuoto. Io conosco la zona palmo palmo, ho tutti i miei punti di riferimento, ma devo dire che non mi piace molto. Il grigio del cielo fa diventare ancora più grigi gli stabilimenti. Fra un’ora ho un incontro con il mio capo, ma, devo ammettere che sono molto serena. Con il mio capo, il Presidente, ho un buon rapporto, lui mi stima ed apprezza il mio lavoro. Certo, talvolta ci scontriamo, non sono sempre in linea con le sue idee, ma questo è nella quotidianità.
Arrivo nell’ufficio dove devo incontrare una persona, è una dipendente che ha chiesto di parlarmi perché ha un problema personale che probabilmente la porterà a dare le dimissioni. Lo so perché radio scarpa mi ha già informata di un nuovo amore straniero. Parliamo a lungo, cerco di capire se ci sono delle soluzioni, l’azienda verrebbe penalizzata dalla sua uscita. Tento soprattutto di capire se lei vuole lasciare l’azienda solo perché non riesce a vivere fino in fondo questo suo nel periodo della vita o se ci sono motivi di insoddisfazione. Non farei nulla per trattenerla in quest’ultimo caso e le augurerei soltanto tanta buona fortuna per poi farmi un esame di coscienza per capire perché una dipendente a cui si tiene non è soddisfatta. Ma qui i motivi sembrano essere di natura personale. Ed allora troviamo insieme una soluzione. Non è neppure difficile. Le propongo un periodo di astensione a cui seguirà un part time verticale che le permetterà di coniugare la sua vita professionale con i suoi desideri di questo momento. Alla fine ne usciamo contente. Lei di non aver dovuto allontanarsi da un’azienda ed un ruolo che ama ed io perché l’azienda non ha perso una collaboratrice preziosa. Ma anche perché vedo un persona felice. In questi momenti credo che il nostro “mestiere”abbia un grande senso.
Faccio ritorno al mio ufficio, mancano cinque minuti all’appuntamento con il mio capo. Busso alla porta ed entro. Lui mi sorride. Parliamo del più e del meno, parliamo del lavoro, gli racconto anche dell’ultimo incontro appena avuto. Mi ringrazia di aver saputo trattenere la persona. Sono felice che condivida la mia scelta. Anche il capo di quella persona è soddisfatto perché ha sempre contato molto su di lei.
Vede, mi dice il mio capo, non eravamo abituati ad avere un direttore del personale che desse tanta importanza alle persone.
L’affermazione è sorprendente, ma piuttosto vera. Lo strano è che io la psicologia l’ho imparata sul campo, la mia laurea in giurisprudenza mi ha sempre fatto considerare un po’ “rigida”. Ma in effetti per me le persone sono importanti. E, per indole, cerco di capire le loro motivazioni, diverse da una all’altra. I risultati che abbiamo avuto li dobbiamo all’impegno delle persone, alla loro gioia, al fatto che si sentono parte di questo progetto.
Lei, aggiunge il mio capo, ha portato in quest’azienda cultura. Una nuova cultura.
Io non mi commuovo facilmente. Sono poche le cose che mi fanno venire le lacrime agli occhi. Quella frase c’è riuscita. Ma sono anche consapevole che quello che ho fatto è perché lui mi ha consentito di farlo. Non ho mai avuto nella mia carriera una ricompensa più importante di quelle parole.
L’importanza delle convinzioni
L’ufficio è grande, bello, elegante.i Imobili neri, di legno pregiato.Tutto è perfetto, quasi un sogno. In apparenza. La sostanza è una grande indifferenza. Il titolare soffre la presenza di un direttore del personale (io) che vive come un costo inutile voluto dall’amministratore delegato.
La mole di lavoro è massacrante se si considera di dover impostare ogni tipo di politica del personale. Occorre innanzi tutto conoscere la realtà. I giorni sono densi, scontri quotidiani si alternano alla soddisfazione dei piccoli risultati giornalieri. Ogni tanto mi assale il timore che siano risultati che vedo solo io. Mi chiedo se hanno un senso anche per i miei colleghi o se io sono solo un elemento spurio di cui non sentivano la necessità. Ma la sensazione di “costo” resta, la si legge negli occhi dei titolari che talvolta incontro.
Ed ecco il miracolo. Come una furia entra in ufficio il proprietario. A dir la verità la proprietà è rappresentata da più di una persona ma lui è il capostipite e tutti lo temono. D’altronde quello di cui è a capo è un vero e proprio impero che lui ha creato dal nulla. Non pensando troppo al modo, ritengo già un successo che sia entrato nel mio ufficio, significa che sa che io sono lì.
“Buongiorno” dico. “Lei deve telefonare a quel lavativo che si è fatto male ad una gamba e dirgli che venga a lavorare, se non può stare in piedi farà un lavoro da seduto !!” “Buongiorno” ripeto. “Ha capito???!” “Certamente, dottore, ma credo di non poterlo fare “ “Cosa ha detto???”
“Non credo, dottore, di poterlo fare. Darei un’immagine sbagliata dell’azienda. I dipendenti penserebbero che i titolari hanno attenzione solo al profitto e non abbiano interesse per la loro salute. Il risultato sarebbe che lavorerebbero senza entusiasmo. E non possiamo permettercelo. Lei lo sa bene,dottore, altrimenti non sarebbe venuto da me, avrebbe già telefonato lei a quella persona.”
Lui mi guarda sbigottito. Una frazione di secondo ed esce a passo di carica come è entrato. E’ chiaro che il mio percorso in questa azienda è terminato. Puoi sperare che in azienda ci siano movimenti per qualsiasi ruolo, ma il proprietario difficilmente viene sostituito. Mi sembra corretto avvertire dell’accaduto il mio capo, l’amministratore delegato che con tanta determinazione ha voluto ricoprire la posizione con una persona dalla cultura multinazionale perché portasse valore aggiunto. Molto serenamente gli racconto il fatto rassicurandolo e tentando di convincerlo che non c’è alternativa al dividersi delle nostre strade. Lui, vecchia volpe dell’ambiente, mi sorride annuendo e chiedendomi qualche giorno di riflessione. Passano tre giorni senza nessuna notizia da parte di nessuno.Sono molto confusa, ma continuo a pensare che mi sarei divertita molto in questa azienda, che avrei potuto fare molte cose, che la mia esperienza sarebbe stata utile…. Suona il telefono per la trentesima volta nell’ultima ora perché, comunque, tutto va avanti e la routine deve essere gestita. Ho accantonato i miei programmi di sviluppo e formazione. Ma per il resto tutto prosegue.
Sollevo la cornetta con un po’ di insofferenza e “Pronto!” dico. Una voce tuona all’altro capo del filo, è il titolare “Allora, visto che lei stabilisce cosa io posso e non posso fare per il bene della mia azienda, posso dire a Tizio che…………….”
Improvvisamente suonano le campane a festa, Le sento solo io , ma suonano davvero. E’ molto di più di quello che potessi sperare. Da quel momento nessuno più di lui ha dimostrato stima e considerazione del mio lavoro. Abbiamo anche fatto tante scintille, perché i punti di vista non sempre collimavano, ma non abbiamo mai messo in discussione che questo potesse pregiudicare la prosecuzione della nostra collaborazione.