Lavoro agile, o cosiddetto smart working: è l’onda del momento, che riguarda sostanzialmente il tempo-luogo di lavoro. Frutto soprattutto -lo sappiamo- delle richieste di flessibilità organizzativa portate avanti per anni dalle donne, partendo dalla loro realtà che contiene l’impossibile separazione tra lavoro e resto della vita (la maternità è il momento più evidente). Sono dunque obiettivi conquistati. Ma da sviluppare e diffondere. E anche da difendere da strumentalizzazioni, perché non tutto è smart nelle nuove forme organizzative. Facciamo solo qualche accenno. Succede per esempio che l’assenza di un orario definito venga usata dall’azienda per estendere la quantità di tempo assorbito dal lavoro: la logica delle ore lavorate non cambia, forse peggiora. Succede anche che alcune aziende tendano ad eliminare il ‘posto’ fisico personale e stabile dove lavorare: scrivanie occupate casualmente da persone diverse, vicini di lavoro altrettanto casuali. Un approccio in realtà mirato ad abbattere i costi aziendali, che di per sé è una buona cosa. Ma l’eliminazione di riferimenti stabili, l’erosione delle relazioni tra colleghi, quali effetti producono nel tempo anche per l’azienda stessa? L’ambiente di lavoro è anche luogo di socializzazione: qui, tutti e tutte insieme, si esce dall’ambito privato, altre reti di relazioni si aggiungono, si nutre l’identità personale. E’ anche questo che costituisce un’azienda: il lavoro è azione collettiva. E se le donne, in particolare, hanno chiesto flessibilità di presenza nel luogo di lavoro per tener conto delle necessità vitali, è perché in quel mondo ci vogliono stare, non sottrarsi: lavorare bene, vivere bene.
E poi ci sono i processi che hanno cambiato il mondo del lavoro, rendendo la flessibilità anche una necessità delle aziende. La finanziarizzazione dell’economia persegue la flessibilità massima di utilizzo di manodopera per minimizzarne il costo. La globalizzazione rende necessario per chi produce in paesi con fusi orari diversi la presenza sul lavoro anche fino a coprire le ventiquattro ore di ogni giorno. Se lo scenario è cambiato drasticamente, non è questione di tornare indietro. Ma è certamente questione di rispondere al nuovo contesto con patti chiari, che rispettino il bisogno e definiscano il guadagno di tutte le parti in gioco. Le riorganizzazioni del tempo-luogo di lavoro non possono essere calate dall’alto unilateralmente definite, ma per funzionare bene vanno concordate tra tutti i soggetti coinvolti. D’altra parte questi cambiamenti sono in evoluzione, per cui le soluzioni sono variabili e oscillanti, e più che mai ogni situazione richiede risposte specifiche in un momento specifico. Nemmeno la copertura legislativa del ‘lavoro agile’, come ogni norma, può comprendere tutta la realtà, ma solo mettere dei paletti generali. Resta dunque, come sempre, la possibilità per chi è manager di fare scelte eque e responsabili. Si può cercare la soluzione in un innalzamento del patto con i lavoratori. Citiamo un esempio curioso, che non comporta grandi piani di riorganizzazione, ma mette a fuoco le dinamiche necessarie.
In una casa editrice di dimensioni limitate ma a forte specializzazione, nessun giornalista -con tipico atteggiamento da ‘creativo’- rispettava orari e regole. La soluzione della Amministratrice Delegata non si è basata su controlli e sanzioni. Ha proposto un patto sul punto chiave del processo, che tutti i collaboratori condividevano: rispettare il tempo di chiusura della rivista. Se non si consegnano in quel giorno e ora precisa gli articoli assegnati, la testata non va in edicola. Con danno per tutti. I giornalisti si sono impegnati a rispettare questa scadenza vincolante, la responsabile a non tenere conto di quante ore e giornate di lavoro erano state fatte: le ferie venivano attribuite comunque secondo il contratto sindacale. Quando volevano lavoravano, quando volevano andavano in ferie o facevano altro, purché si rispettasse questo accordo.
Molte esperienze realizzate mostrano che dove si adottano forme adeguate e condivise di flessibilità, non c’è calo del lavoro svolto. Perché si fondano su un patto di fiducia reciproca: l‘azienda dà credito all’impegno di chi lavora rispetto ai risultati richiesti, chi lavora dà credito all’azienda che ne avrà vantaggi nel gestire il suo tempo e nel riconoscimento se cambia la qualità della prestazione. Il fondamento è il rispetto del punto chiave che tutti condividono: il raggiungimento degli obiettivi. E’ un patto che ogni manager può fare, fa parte della sua discrezionalità.