Nel giro di pochi anni aziende e lavoro sono drasticamente cambiati con il cambiamento del mondo. Niente è più come era. E non si può più parlare di management come prima. Eppure restano punti di conservazione pervicaci. Per esempio, si continua a discutere se e come le donne –con la loro ‘diversità’- arricchiscono il management, per cui è bene averle anche nei luoghi decisionali. C’è un mondo maschile che ancora aspetta la prova del nostro valore, misurandolo con i suoi criteri di giudizio e rispetto alle aziende così come sono, come gli uomini e certe concezioni economiche le hanno costruite. Ma per noi non c’è niente da aspettare e niente da dimostrare. Non ci misuriamo su quelle metriche, comunque variabili e arbitrarie. Non ci interessa fare questioni di maschile-femminile, ma mostrare lo scostamento tra un certo tipo di atteggiamenti non costruttivi e un altro tipo di atteggiamenti, socialmente e aziendalmente più costruttivi.
Molte donne, infatti, stanno portando visioni e pratiche lontane dai modelli e dai principi usuali del management, quando questi si mostrano inefficaci, insufficienti, controproducenti.
Sappiamo che non solo le donne e non tutte le donne hanno un atteggiamento così. Vediamo tuttavia che oggi questo cambiamento viene più da donne che da uomini, e ragioni ce ne sono. Essere donne nel management, tra vari problemi, ci dà infatti un vantaggio: siamo differenti. Viviamo una vita diversa, e vediamo le situazioni in un altro modo, compreso il nostro lavoro. Partiamo da un altro punto di vista, un punto di vista di donne. Una visione che non sta nei limiti delle questioni ‘di genere’, ma investe la concezione dell’azienda e il modo di governarla, investe tutto il management.
Il lavoro e il management sono un campo dove finora c’è stata (quasi) solo una cultura ‘maschile’. Così spesso i manager finiscono per vedere sempre le stesse cose, con lo stesso punto di osservazione. Le donne arrivano nel management con la testa più sgombra, meno condizionate a comportarsi secondo le logiche del potere dal quale sono state tenute fuori per secoli. Meno formate da una cultura manageriale che si trasmette con modelli consolidati, perché anche dai ruoli decisionali sono state tenute fuori. Meno portate a fare come si è sempre fatto perché loro non l’hanno mai fatto. Vedono cose diverse e vedono le cose diversamente, e per come le vedono non ci sono riferimenti dati. Partono da quello che hanno davanti, perché alle spalle hanno quasi solo esperienze di uomini. Queste donne hanno fatto cose nuove che hanno avuto effetti positivi sull’organizzazione, mettendo in campo la loro differenza soggettiva.
Questo cambiamento nasce da una svolta fatta da molte: avere affrontato la questione del potere in azienda. Potere è una parola ambivalente, tra dominio e possibilità. Ma poiché nello spazio pubblico, come l’azienda, il potere è da sempre degli uomini, ha finito per cristallizzarsi in modi legati a codici maschili: comando, controllo, autoreferenzialità. Logiche in cui le donne spesso non si ritrovano, e per questo tendono a tenersi fuori dai luoghi decisionali alti. Molte donne però hanno cominciato ad assumere quei ruoli senza adeguarsi alla cultura che vi domina. Si sono fondate invece sulla propria visione dell’azienda e dei suoi scopi, del lavoro delle persone e del ruolo manageriale. Le loro politiche per questo spesso sono fuori dalle regole abituali e mostrano nuovi orientamenti.
Il punto di svolta è la scelta di guidare un’azienda fuori dalle logiche di potere che portano a conservare lo statu quo. Di conseguenza queste donne guardano criticamente i modelli manageriali che ne derivano. Mentre negli uomini più forte è la tendenza a riferirsi agli schemi sperimentati e a ragionare per teorie, le donne più spesso maturano le decisioni tarandosi sulla situazione reale che hanno davanti. Non è una riduttiva questione di pragmatismo, è un modo di pensare libero da pregiudizi, che parte dalla propria visione e si misura con la realtà: attento alla specificità, alle circostanze, al contesto umano e affettivo. Il management nasce dal contatto diretto con le persone e le situazioni. Le donne si muovono con dei progetti in testa, ma non partono da come si è sempre fatto e dalle teorie. Non hanno in mente modelli già definiti, ma criteri e valori sì.
Il cambiamento nasce proprio da lì: dalla propria visione, dai propri valori. “Il management non è una questione di tecniche o metodi, è una questione di valori.(…) Le persone che hanno fatto innovazioni sono sempre partite dalle loro convinzioni, da un modo di rappresentare il mondo -possiamo chiamarlo un modello mentale- che è una cosa molto soggettiva. Poi hanno cercato di trasformare questa convinzione soggettiva in un concetto definito oggettivamente. Lo hanno motivato nella loro organizzazione e alla fine lo hanno realizzato concretamente”1 dice Jukiro Nonaka.
Questo processo lo abbiamo visto nei progetti di donne manager in discontinuità con le politiche usuali. Ma molte cose diverse che le donne pensano e fanno non vengono valorizzate proprio perché non esistono nelle teorie e nei modelli conosciuti, perché non sono formalizzate. Anche il linguaggio manageriale, che definisce un’appartenenza, non ha parole per cose non previste, classificate tutt’al più come anomalie accettabili. Queste politiche, così, sono facilmente ridotte solo a ‘buone pratiche’ da cui prendere qualche idea, o svalutate come ‘buon senso’. E’ un modo per non riconoscere quello che esce dalle consuetudini, per non prendere in considerazione la possibilità di un altro modo di vedere le cose. D’altra parte le donne stesse parlano poco delle loro esperienze, non hanno piena consapevolezza della portata di quello che fanno, perché ai loro occhi sembrano cose ovvie e semplici, proprio perché non riconducibili a grandi modelli di management. Non pensano di poterle formalizzare, di ricavare anche un assetto teorico da quello che fanno. Così queste esperienze non vengono valorizzate e finiscono per non avere rilevanza. Non entrano nella cultura di management.
Non basta dunque che queste cose accadano, bisogna anche che vengano riconosciute e assunte, inquadrate in qualche modo in un pensiero organizzato, in un orizzonte di valori. Su queste esperienze bisogna riflettere. Non guardandole come best pratices, perché nessuna pratica è buona per tutte le situazioni. Piuttosto, come testimonianza che è possibile discostarsi dal solito, trovare una propria via con buoni risultati. Esempi per imparare a leggere la nostra esperienza ‘politicamente’: ovvero prendere consapevolezza del suo senso e del suo valore. Altrimenti è come se non esistessero.
Noi di Donnesenzaguscio2 stiamo lavorando a questo progetto: far conoscere queste pratiche di donne che cambiano i modelli manageriali, mostrare cosa hanno realizzato e come, la visione che ha orientato quelle politiche, ciò che si è imparato e che può essere trasmesso, quali criteri e principi emergono e possono essere utili. Pensare a partire da una pratica esperita serve a trasformare l’azione in conoscenza che può essere utilizzata altrove, a non contrapporre teoria e pratica, ma non tenerle separate. Non si tratta di definire un altro prescrittivo modello, ma trasmettere questi orientamenti e valori a tutto il management. “Un corpo di conoscenze e metodi che possono essere comunicati e usati”3.
Non possiamo qui darne conto in dettaglio (abbiamo cominciato a farlo in altri contesti4). Possiamo solo accennare a qualche esempio di come pensiamo e agiamo il ruolo di manager in tutti gli aspetti di questo lavoro. Sembra ovvio, ma questo va detto perché in molte politiche fatte da donne manager, si vede una costante: hanno cambiato il modo di lavorare con le persone. Questo avviene perché è uno dei punti più critici in azienda, perché più spesso le donne sono convinte che migliori risultati si hanno se le persone possono lavorare bene, perché è più facile che le manager si trovino nelle funzioni di direzione del personale. Ma di questo stato di cose viene spesso data una lettura limitante. L’apporto delle donne viene ricondotto solo alle relazioni, alla cura… insomma, le supposte doti femminili tradizionali trasferite da casa in azienda, come complemento del modello manageriale di riferimento (che tale resta). E’ un modo per non riconoscere una visione che investe invece l’idea di come può essere il management. E bisogna aggiungere che in qualunque area di intervento -anche le politiche relative al personale- si richiede l’esercizio di varie funzioni: analisi, progettazione, organizzazione, piano economico, valutazione del rischio, formazione… Ogni progetto è complesso.
Sgomberato il campo, possiamo guardare ad esempi proprio rispetto alla maternità, dato che ancora oggi in azienda è vista come problema e come costo. Ma, partendo dalla personale esperienza, alcune manager hanno definito nuovi paradigmi organizzativi.
La Hr Director di una multinazionale, con prevalenza di donne giovani e qualificate, ha rovesciato il modo di pensare alla maternità: quanto costa all’azienda non scegliere una donna? Fare investimenti che aiutino nel momento della maternità costa meno che non gestire affatto il problema escludendo le donne dal lavoro, perdendo la loro competenza e l’investimento in formazione. La risposta è stata -tra l’altro- un contributo per l’asilo privato per tre anni, e un coaching per il reinserimento professionale. Il rientro al lavoro è stato elevatissimo. Si acquisisce un principio che va oltre la maternità. Si è cambiato il cardine della cultura organizzativa: la separazione tra tempo-luogo di lavoro e il resto della vita. Inoltre, si risponde al problema non con soluzioni personali che sarebbero estemporanee e occasionali, ma con un cambiamento organizzativo per tutti: si istituzionalizza quella politica, si cambia una parte della cultura aziendale.
Facciamo un altro esempio, dove partendo dal suo desiderio di maternità, la responsabile di un’importante area di business ha cambiato un altro cardine organizzativo. Il punto di partenza è stato come poter avere un figlio senza i blocchi di carriera che avvengono per le manager in queste circostanze. La risposta è stata costruire -con un intenso lavoro di team building- la crescita professionale e l’autonomia decisionale di tutto il gruppo di lavoro, in modo da poter funzionare anche senza la sua presenza continua. I risultati sono stati così positivi che questa organizzazione è stata estesa a tutta l’azienda. Ma non si è trattato solo di una soluzione rispetto al periodo maternità. L’aspetto più dirompente è stato passare da un’organizzazione fondata sul controllo a un’organizzazione fondata sulla fiducia e l’autonomia di chi lavora, uscendo dallo schema gerarchico capo-collaboratore. E infatti questo è diventato il nuovo modello organizzativo di tutta quell’azienda: la responsabilizzazione diffusa.
Guardiamo anche a come un’azienda in stato di crisi è stata salvata da una giovane manager, nominata Direttore del Personale per gestirla fino alla dismissione. Lei si è invece data l’obiettivo di salvare l’interesse comune, l’azienda. In una situazione di tensione gravissima ha coinvolto tutti -con continui capillari incontri- nell’obiettivo di portare a termine le commesse in corso, come base per acquisirne altre e continuare l’attività. Ha chiesto molto -lavoro intenso e sacrifici notevoli anche economici- ma in una prospettiva di un ritorno per tutti. Ha fatto leva sulla responsabilità, sulle competenze e l’importanza del lavoro di ognuno. E l’azienda ha continuato l’attività. Lo sviluppo dell’azienda passa anche dalla crescita e responsabilizzazione di chi vi lavora. E aggiungiamo che questa donna ha mostrato come rispetto agli obiettivi aziendali ogni dirigente può esercitare un margine di discrezionalità, non è solo un esecutore di ordini.
Un diverso esempio riguarda il modo di sviluppare un progetto di cambiamento aziendale non imponendo dall’alto un piano definito a cui i destinatari devono adattarsi, ma coinvolgendo i destinari nella realizzazione. Così che del progetto si approprino e lo adattino alle esigenze reali (Nel box qui accanto i criteri e l’efficacia di questo approccio sono raccontati dalla responsabile di un progetto di avanguardia di digitalizzazione della cartella clinica integrata, medica e infermieristica
Possiamo infine accennare al cambiamento della funzione gerarchica tradizionale, dove ogni capo di un settore diventa responsabile di far crescere e guidare i suoi collaboratori come mentore. Oppure ad una modalità di lavoro cooperativa invece che competitiva, esplicitata e richiesta come prassi oggetto di valutazione: la valorizzazione delle capacità e responsabilità individuali è tesa ad un risultato che viene ascritto a merito di tutti. O ancora ai modi di scoprire, censire e coltivare le potenzialità ignorate di chi lavora. Dobbiamo fermarci a questi rapidi passaggi (con la semplificazione che ne deriva).
Quello che però possiamo cogliere è un concetto di fondo che ricorre nelle diverse politiche di queste manager. L’azienda è intesa come un luogo in cui convergono soggetti diversi con interessi diversi, ma di tutti bisogna tenere conto perché tutti contribuiscono a creare il valore dell’azienda. Al management compete trovare un’area di ragionevole equilibrio tra questi diversi interessi. E’ una visione che contrasta -anche senza esplicitarne l’intento- quanto succede oggi nell’aziende, con la prevalenza della finanza sull’economia reale. Se lo scopo è solo prendere la ricchezza prodotta nell’azienda per portarla sul mercato finanziario, non conta il valore reale di quell’azienda e quello che può creare nel futuro. E il lavoro è un costo da comprimere e sempre sacrificabile. Ma l’idea che l’economia possa funzionare solo così è un convincimento imposto. E infatti ne vediamo i risultati. L’atteggiamento di molte manager è orientato invece alla crescita dell’azienda, agli obiettivi economici, allo sviluppo delle potenzialità presenti, a rendere tutti partecipi del processo produttivo e dei suoi ritorni. Creare valore oggi, mettere le basi di prospettive future. Una via praticabile. Se così non fosse, queste manager non sarebbero lì dove sono.
Seguendo lo sviluppo di questi pensieri e di queste esperienze, possiamo parlare di un diverso modo di governare le aziende. La parola governo esprime una cultura orientata non al comando ma alla guida, non al profitto a breve e a qualsiasi costo, ma al bene comune. A una cultura di potere si può sostituire una cultura di governo.
I princìpi e i valori che abbiamo visto in atto sono punti imparati, ma non finiti. La conoscenza si sviluppa di continuo con l’agire, e di criteri possiamo trovarne via via altri. E’ dalla pratica che si delinea il modo di essere manager, senza ridurre il management ad una cosa formalizzata da cui si è tolta la vita e il senso. Far conoscere e mostrare la portata politica di questi orientamenti di management, dei benefici che hanno portato all’azienda e a chi vi lavora, serve ad affermare l’autorità del nostro agire, del pensiero che lo guida. Un’autorità separata dal potere, riconosciuta dalla comunità in cui si opera per quello che si è e si fa, non per ruoli istituzionali. Ci sono già molte manager nelle aziende che con i loro risultati dicono: guardate, nelle aziende stanno succedendo queste cose, queste cose si possono fare, ci sono donne che le stanno facendo succedere.
Box
“L’obiettivo del mio lavoro è la progettazione del sistema informativo per gli ospedali del gruppo aziendale. Ci sono tre strade per fare questo lavoro. La prima è imporre uno strumento informatico costruito sulle esigenze dei fattori economici e costringere migliaia di persone ad utilizzarlo. La seconda ha la stessa finalità, ma una modalità diversa: si sceglie un modello e poi lo si adatta ‘mediando’ su varie opzioni per accontentare gli utenti. La terza strada è costruirlo con il loro aiuto tenendo conto delle esigenze di tutti. La prima ipotesi dà risultati sicuri e immediati con i conseguenti riconoscimenti da parte dell’azienda. Il successo è maggiore quanto maggiore è la capacità di coercizione nel fare accettare un modello di lavoro non condiviso, ma rispondente a una parte dell’azienda, quella che detiene il potere. Il punto critico è che questo tipo di innovazione dura quanto può durare la capacità di forzare le persone. Non appena volti le spalle tutto ritorna come prima. La seconda ipotesi è quella meno efficiente, perché nessuno ti perdona una ristrutturazione di facciata di un modello non condiviso, quindi ha poca durata. Il terzo è sicuramente l’approccio più rischioso e più faticoso per chi lo adotta, perché richiede molto: un’ottica di condivisione pur avendo chiari gli obiettivi; la consapevolezza che il successo del progetto non può essere solo tuo, quindi i meriti sono condivisi; si cede una parte considerevole del proprio potere di ruolo. Si individuano anche soluzioni e modalità che possiamo non apprezzare, ma se coinvolgi qualcuno lo devi ascoltare e tenere conto del suo punto di vista. Anche se questa è la modalità più faticosa, alla lunga è quella che permette una vera innovazione, in quanto va al di là degli obiettivi iniziali. Essendo condivisa, ogni persona che partecipa apporta un pezzetto della propria visione, creando una innovazione frutto di una costruzione comune. Siccome ognuno ne è stato parte, ci terrà a renderla duratura, così è la modalità con durata maggiore. Il terzo approccio è quello che preferisco, faticoso ma sulle lunghe distanze premia. Ha un problema sostanziale: il progetto non più solo tuo, ma lo condividi, non lo puoi controllare, lo puoi guidare, ma il risultato può non essere quello che tu vuoi. Spesso però è molto di più.”
Pina Grimaldi, Direttore Sistemi e Organizzazione di un gruppo ospedaliero.
1Sta in: Knowledge has to do with Truth, Goodness and Beauty. Conversation with Professor Jukiro Nonaka, by Claus Otto Scharmer, www.dialogonleadership.org/Nonaka-1996.
2www.donnesenzaguscio.it
3“A body of knowledge and methodology that can be communicated and used”, così Joan Woodward, parla dei suoi studi. Woodward segnò una svolta sul rapporto teoria e pratica nella realtà aziendale, con la sua opera dirompente pubblicata ciquant’anni fa Industrial Organization: Theory and Practice, Oxoford University press, London, 1965. (Ed.it. Organizzazione industriale. Teoria e pratica, Rosenberg & Selliers Torino, 1975). Il titolo sottolinea la questione centrale: le teorie devono trovare fondamento nella pratica reale. Vedi: http://www.donnesenzaguscio.it/index.php/there-is-no-one-best-way-joan-woodward-cinquantanni-dopo-una-maestra-e-le-autodidatte-3/
4Luisa Pogliana, Le donne il management la differenza, Guerini e Associati, 2012.