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Della diversità si parla molto, moltissimo di questi tempi. Soprattutto delle diversità di genere. I convegni e i libri si moltiplicano, gli esperti e i consulenti hanno molto lavoro: la diversità è l’ultimo cavallo di battaglia del politicamente corretto e l’ultima qualificazione distintiva dei guru aziendali. Perché allora i cambiamenti di cultura e prassi aziendale su questo terreno sono così irrilevanti?

E’ una vita che ci rompete i coglioni
Qualche giorno fa ho incontrato ai margini di un convegno un ex collega, in passato membro del board dell’azienda dove entrambi abbiamo lavorato. Ci scambiamo qualche informazione su cosa stiamo facendo ora, e io cito una persona con cui ho un ottimo rapporto professionale. ‘E’ bravissima -gli dico- la migliore che abbia incontrato in questo lavoro. Se non fosse una donna avrebbe fatto ben altra carriera in quell’azienda’.
Ed è vero. C’è almeno un’occasione ben nota a chi lavorava in quell’ambiente allora, in cui le è stato preferito un uomo che professionalmente e intellettualmente non le arrivava nemmeno alle ginocchia. Ma la cultura aziendale trasmessa ad alta voce in una riunione dal direttore generale dell’epoca non lasciava dubbi: ‘Mai scegliere una donna anche se è al massimo delle capacità. Ricordatevi che prima o poi una donna piange’.
Il mio ex collega a questo punto sbotta, con tono scherzoso ma in realtà con convinzione: ‘Ancora con queste storie, non se ne può più, è una vita che ci rompete i coglioni’ .
Ma il punto non è questo. Il punto è che io, orribile a dirsi, mi sento annaspare, mi sento un pesce che apre la bocca e ne escono bolle d’aria. Cerco di dimostrare quanto sia vera la mia affermazione nel caso specifico, mi manca solo di gridare che ho le prove, ma mi sento le armi spuntate.
Perché il problema, da quando le donne hanno messo piede in azienda e ancora oggi, è che i trattamenti discriminatori che le riguardano non sono certo ufficialmente annunciati, non sono nemmeno motivati, nessuno si preoccupa di giustificarli, non avvengono con meccanismi trasparenti, non hanno ragioni di vantaggio aziendale che li spieghi.
Al contrario, avvengono nella totale arbitrarietà, spesso contro ogni razionalità, con dinamiche opache. E quando una cosa non esiste ufficialmente, non si sa come avviene, dove, perché, per decisione di chi, semplicemente non esiste. Non è vera, non è dimostrabile, non è denunciabile, non si può provare, non si sa come contrastarla.
Eccolo qua il famigerato ‘soffitto di vetro’, così battezzato oltre vent’anni fa per indicare quella cosa efficacissima nel bloccare l’ascesa delle donne alle cosiddette posizioni apicali, ma che apparentemente non esiste, perché non si vede.
Comunque, in quel momento, di fronte all’ex collega che stroncava con aria pragmatica il ‘solito rivendicazionismo femminista’, di fronte a me che mi trovavo a mani vuote sapendo invece di avere ragione a piene mani, mi è montata una rabbia, che non è vero che acceca, la rabbia illumina. E mi sono detta, e ho detto: Il problema è che i coglioni su queste cose non ve li abbiamo mai rotti seriamente, mai quanto sarebbe stato giusto e necessario.
Mi sono vista passare rapidamente in testa tutta una serie di lavori, discussioni, convegni, articoli scritti, documenti preparati per usarli dentro e fuori l’azienda dove ho lavorato. Tutti che trattavano i fondamentali aspetti per cui non si può continuare a tenere le donne in buona parte fuori dall’attività lavorativa e fuori dai posti e luoghi di responsabilità. Nell’interesse certo delle donne, ma anche delle aziende, dell’andamento economico, del paese. E sono tutte argomentazioni vere.
E’ vero che un paese dove l’occupazione femminile è ai livelli più bassi d’Europa è un paese che lascia fuori dalla costruzione dello sviluppo economico la stragrande maggioranza della sua popolazione. Infatti si vede in quale situazione economica è andato a cacciarsi. Con danno di tutti.
E’ vero che c’è uno spreco vergognoso di risorse. Le donne arrivano al mercato del lavoro con preparazione e qualificazione molto più elevate degli uomini, ma vengono falcidiate, nella loro crescita a favore di uomini meno preparati. Si buttano talenti preferendo affidare il proprio sviluppo alla mediocrità.
E’ vero che le donne sono intralciate nel loro cammino al lavoro da carichi famigliari antichi come il mondo ma in un mondo dove le cose non possono essere più così. Eppure si considera naturale che le donne abbiano un monte ore aggiuntivo di lavoro gratuito per gestire la famiglia, qualunque sia il loro lavoro e il livello professionale raggiunto, o si ritiene che le donne debbano limitare o rinunciare ad una carriera per occuparsi della vita famigliare. Invece di fornire un’adeguata organizzazione aziendale e strutture sociali perché non debbano dimezzarsi la vita o raddoppiare la fatica.
Quanto alla diversità, ci si riempie ormai così tanto la bocca di questa parola che ne facciamo un altro feticcio del politicamente corretto. Ma la cultura e le prassi informali delle aziende continuano in modo non sensibilmente dissimile.
In prevalenza, almeno da noi, quando si parla di diversità la differenza a cui si fa riferimento è quella di genere. Il tema, cominciato in sordina diversi anni fa, è oggi molto di moda.
E’ arrivato come al solito dall’America, dove il nome inglese di diversity management conferiva subito la dignità e l’accettabilità di un nuovo aspetto delle dottrine organizzative e manageriali.
Molte parole si sono spese sugli stili di leadership femminile, così diversi e così più adatti alle esigenze dell’azienda oggi. Sembrava che le aziende non dovessero fare altro che accoglierli per trarne vantaggi. Ma non abbiamo avuto, in realtà, molte occasioni in più di vedere all’opera la leadership femminile.
Le teorie aziendali sono spesso agili nel recepire molte cose, anche perché queste teorie si vendono sul mercato, e se c’è una novità si vende meglio. Molto dunque si è parlato della ricchezza che viene dalla diversità delle donne, portatrici di visione nuova, di intelligenza emotiva, di un modo di vedere e sentire la realtà con uno sguardo diverso, e che quindi portano un incremento di conoscenza e capacità aggiuntive negli approcci al lavoro e alla managerialità.
In più, in Italia, da vent’anni il pensiero della differenza sessuale è entrato a far parte di una cultura femminile piuttosto diffusa in un certo tipo di donne, e non è rimasto certo estraneo alle riflessioni sul lavoro delle donne.
Ciononostante, la cultura aziendale , nella maggioranza dei casi, di fatto sembra continuare ad avere un solo tetragono modello di riferimento, e a funzionare con quello.

Ragionevolezza e insofferenza
A questo punto ho avuto una reazione di insofferenza.
Basta, basta fare le persone ragionevoli e giudiziose, le persone intelligenti e convincenti, che vedono gli interessi delle donne sotto la luce degli interessi aziendali prima ancora che sia l’azienda a vederli, gli interessi del paese di cui al paese sembra non importare nulla. Torniamo a dire, prima di tutti questi discorsi responsabili sul vantaggio comune, torniamo a dire che per noi è una questione di giustizia. Diciamo che nel porre questi problemi noi pretendiamo innanzitutto che venga riconosciuto, in generale e a ogni individuo, il valore del proprio diverso modo di essere, e riconosciuto nei termini di praticare e premiare e remunerare un diverso approccio al lavoro un diverso modo di essere al mondo. Noi pretendiamo un trattamento di equità .
E sento il bisogno di tornare a dire chiaramente che, prima di tutto, ciò che mi ha portata a scrivere e a fare tutto il resto, a comportarmi in modo che in azienda qualcosa cambiasse è stata una cosa più più concreta e più potente di qualunque teoria economica: io ho spesso sentito che mi veniva tolta la mia libertà di essere quello che sono e di fare quello che desidero e posso. Mentre questa possibilità per altri era normale diritto acquisito. E io questa cosa non la voglio per me, non la voglio più per nessuna.
Intendiamoci, è tutto vero. E tutto serve. Io credo che non ci sia una sola azione superflua da tentare, una sola pratica da cui prendere le distanze quando si tratta di provare a cambiare la evidente iniquità che segna la presenza femminile sul mercato del lavoro.
Anche perché le aziende cambiano le loro politiche e le loro cultura solo se capiscono che ne hanno un vantaggio.
Queste sono tutte argomentazioni vere e importanti. Più che sufficienti se qualcuno volesse capire.
Cosa manca allora?
Qualche episodio aiuta a vedere meglio la questione.
Per i primi numeri proprio di questa rivista avevo preparato alcuni contributi che affrontavano il problema del trattamento penalizzante per le donne nel mercato del lavoro, e anche sulla diversità come ricchezza (che in quel momento non era ancora diventato un tema ‘in’).
L’ottica era esattamente questa: l’interesse generale e l’economicità complessiva.
Un amico, dopo averli letti, mi disse: ‘ah, l’hai messa giù così per fargli passare le cose in modo più digeribile’. Era, per lui, un’astuzia.
Anche quel momento per me fu illuminante. Pensai che certo appare molto più serio, maturo, ragionevole, costruttivo e accettabile dire: ehi, guardate che non stiamo rivendicando, non stiamo recriminando, stiamo parlando anche nel vostro interesse, vedete come ci facciamo carico dei destini sociali?
Avevo detto cose che ritenevo giuste e razionali. Sentivo però che mi ero tenuta a freno.
Allo stesso modo, nell’ultimo convegno sulla diversità a cui mi sono trovata a partecipare, stavo ascoltando l’intervento di un relatore che non sembrava essersi mai sentito diverso in nessuna situazione, ma piuttosto pietra di paragone. Mi è venuto di nuovo un moto di insofferenza.
Ormai siamo tutti intelligenti, ed evoluti, e buoni, mi sono detta. Sappiamo tutto sulla differenza di genere -e d’altro- e sul suo valore, sappiamo che va accolta e va valorizzata. E così in realtà, confinata ai discorsi, paghiamo il tributo formale e poi via come prima.
(Come quando anni fa partecipai ad un seminario aziendale obbligatorio sul ‘pensiero laterale’ -la moda del momento di allora-. Per un giorno il gruppo dovette allenarsi a pensare diversamente, a trovare una propria originalità, un’insolita visione. Il giorno dopo eravamo in riunione, tutti allineati e coperti ad aspettare il verbo del capo, così giusto che nessuno osava non essere d’accordo. Anche perché se qualcuno dissentiva veniva stroncato. Il corso sul pensiero diverso non poteva cambiar niente, né ci si aspettava che lo facesse: era stato proposto e gestito nell’ambito rigoroso della cultura aziendale omologata e indiscutibile, e lì doveva restare).
E’ così che si depotenzia la carica di cambiamento che la differenza contiene in sé, che viene dal suo profondo concetto di equità: tutti gli individui hanno un valore, il loro valore, non ci sono categorie che per definizione valgono più delle altre e costituiscono il modello.
Ma questo lo capisce, lo sente e vuole che gli venga riconosciuto solo chi è differente dal modello, e come tale viene definito e trattato. Definito in genere negativamente e trattato quindi peggio degli altri. Ingiustamente.

Diversità e regole
Parlare della diversità senza darle il corpo, la concretezza e le realtà di una vita vera è come se si volesse farsi accettare togliendo la potenzialità di rottura di un sistema dato che la diversità contiene.
Per questo ho sentito la voglia di dire chiaramente come a me interessa parlare di diversità. Ovvero di cosa vuol dire essere donna e lavorare in un’azienda, essere donna e fare o cercare di fare una carriera in azienda, quando si sceglie o ci si trova a farlo.
Per una volta diciamolo chiaramente, non per è il bene dell’azienda, che così si arricchisce e diventa più competitiva. Prima di tutto è per il bene mio, per il bene delle donne.
La cosa che sento più importante è il fatto che, prima di essere teorie e analisi sociali e riflessioni economiche, per le donne il problema delle carriere femminili in azienda e della loro diversità è realtà quotidiana, personale e concreta. Con tutte le sue soddisfazioni, ovviamente, ma certo con i suoi a volte cari e soprattutto non motivati prezzi.
Nella mia storia, normale storia di una che ha passato la vita lavorando in azienda, diventando dirigente, ho vissuto e visto vivere tutte quelle assurde disparità di trattamento di cui si parla in innumerevoli studi: gli ostacoli aggiuntivi, gli stereotipi, i soffitti di vetro e i ghetti di velluto, le retribuzioni, i riconoscimenti e le opportunità iniquamente dispari, la cultura aziendale che penalizza le donne.
La cosa decisiva, mi pare, è parlare partendo da sé, assumere e dire la propria storia perché è così che si prende consapevolezza della realtà della differenza in azienda. E’ decisivo il fatto di avere sperimentato, vissuto personalmente cosa vuol dire essere una donna in un’azienda. Sapere cos’è la nostra diversità agli occhi di questa azienda, che per storia e realtà consolidata è una costruzione sociale maschile.
Ecco qua una brevissima, rapidissima, superficiale raccolta di esempi sulla diversità delle donne vista con gli occhi dell’azienda media. Ovvero degli uomini che in strabordante misura ne sono a capo e ne decidono le politiche.
Le donne sono deboli, comunque, di fronte al codice della durezza che è il primo codice etico e comportamentale di un’azienda.
Le donne possono anche essere manager, ma restano prima di tutto donne. Le donne sono emotive, e le emozioni contrastano con il codice della razionalità, l ‘unico ammesso ufficialmente . A meno che non sia un capo importante a ‘sentire di pancia’ che è giusto fare in un certo modo, allora non servono motivazioni logiche e stringenti.
Quindi le donne piangono. Come ho già mostrato prima, le lacrime non possono esistere nel tempio dei duri. Poco importa se poi gli uomini, non potendo dare sfogo altrimenti alle emozioni, si incazzano fortemente, a proposito e a sproposito, facendo danni anche seri a cose (il business) e persone. Ma questa non è emotività, è una prova di carattere.
Le donne sono vulnerabili agli affetti e attente alle persone. Che con i dipendenti e i colleghi non si deve e non si può. Si ottiene di più (se non altro per il proprio senso di potenza) con la paura e l’arbitrio.
Le donne prima o poi, oltre a piangere, fanno bambini, e non è questione di ridimensionare un po’ il lavoro per un periodo transitorio: l’azienda richiede dedizione totale e assoluta e sempre. Che sia davvero necessario o no.
Le donne, insomma, non hanno i coglioni. Li rompono solo a chi ne è portatore ufficiale, i capi, con la pretesa di ambire a posti da uomini (e così torniamo all’inizio di questi pensieri).
Non si tratta di piccole caricature per ridere. E’ purtroppo realtà, non quella realtà aziendale aperta, consapevole, intelligente, moderna che si mostra nei convegni e nelle riunioni ufficiali, ma quella che vediamo in atto nei nostri uffici.
E qui non è questione di vittimismo. Tutto questo è reale e ci costa fatiche supplementari, ma non ci ha mai impedito di andare avanti nel nostro percorso, anzi, ci piace se ci porta dove noi vogliamo, o anche se ce lo impedisce ma intanto noi proviamo, e cresciamo.
Bisogna piuttosto capire da cosa nasce tutto questo, e perché la differenza delle donne, di fatto, è ancora così tanto segnata come mancanza e inadeguatezza, perché si ha così bisogno, quando non è possibile ignorarla, di arginarla e tenerla sotto controllo.
Perché la diversità è dirompente, la diversità scardina un modo di regole date. Soprattutto in azienda.
Il mondo del lavoro, storicamente, è stato costruito dagli uomini, che ne hanno definito le regole secondo il loro modo di essere e i loro bisogni. Ma oggi, con la presenza normale delle donne nel lavoro, anche nei livelli direttivi, queste regole appaiono chiaramente non neutre e non universalmente valide, come invece si continua a presentarle.
Le donne portano anche nel lavoro la loro differenza: fatta di affetti ed emozioni, diverse capacità e diverso modo di pensare e sentire, diverso modo di concepire il mondo e il lavoro, le relazioni e le persone, diverso modo di vivere la vita, che per loro è sempre intera, quella dentro e quella fuori dall’azienda non scisse a compartimenti stagni come facilmente avviene per gli uomini, socialmente sempre centrati fondamentalmente sul lavoro. Ma non è qui il momento di approfondire la differenza femminile in tutta la sua novità e ricchezza.
Qui serve capire che la diversità femminile porta a sovvertire i codici, l’organizzazione del lavoro, le regole, i tempi e le modalità di relazione.
Facciamo solo un esempio, il più comune e comprensibile. Le donne, in maggioranza, nella loro vita devono costantemente farsi carico di molti compiti, vivere molti ruoli diversi. Cosa che non avviene agli uomini. Per le donne il tempo e l’organizzazione del tempo è la risorsa più preziosa Ma in azienda, lo sappiamo bene, un codice diffuso è quello di lavorare a oltranza, spacciando la quantità per qualità, e denunciando incapacità di organizzare più efficientemente l’attività. Ma l’importante è farsi vedere in ufficio fino a tardi, molto tardi, e poi magari bere qualcosa tra colleghi o con il capo. Una donna, se mai fosse attratta da tali modi di sprecare il tempo, comunque sa che deve occuparsi dei figli, per esempio, e sa che una riunione programmata o spostata alle cinque mette in crisi l’organizzazione famigliare. Ed ecco che l’insensatezza di questo modo di lavorare ha cominciato ad essere messo in discussione (in alcune aziende avanzate già si adottano orari totalmente flessibili secondo le necessità personali). Ma anche qui non andiamo oltre con gli esempi.
Piuttosto, si arriva a capire perché tutti questi corsi e convegni e libri sulla diversità incidono così poco sul cambiamento, sono così poco efficaci nel dare valore, valore riconosciuto nei fatti e non a parole, alla diversità.
Perché i discorsi formali e istituzionali vedono e progettano un ‘accoglimento’ della diversità in azienda solo negli aspetti e nei modi che possono essere integrati nelle norme e nei codici aziendali senza cambiarli, senza sconvolgerli. Non scardinano le regole ma le confermano ponendo comunque i limiti dentro cui deve stare la diversità.
Per questo nella vita reale di questi discorsi non ce ne facciamo proprio niente. Quello che noi possiamo fare è non accettare che le regole siano comunque più forti, che si debba inevitabilmente adattarsi (soprattutto ora che nel mondo del lavoro non siamo più così poche).
Quello che possiamo fare è portare e fare vivere la nostra differenza, darle noi per prime valore e fare riconoscere questo valore.
Uscire dalle regole, cambiare le regole è l’unico modo di tenere davvero conto della diversità.
Se no, è un modo per tenerla imbrigliata.

Luisa Pogliana

(pubblicato su Persone&Conoscenze n° 38, aprile 2008)

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