Bernard Lewis
What went wrong? The clash between Islam and modernity in the Middle East, London, Weidenfeld & Nicolson, 2002.
(Trad. it. Il suicidio dell’Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà medio-orientale, Mondadori, Milano, settembre 2002.
Bernard Lewis, Professor Emeritus alla Princeton University, studioso tra i più importanti del Medio Oriente e della storia dell’Islam, esamina in questo saggio le ragioni della caduta della civiltà islamica nell’impatto con la modernizzazione proveniente dell’occidente.
Per molti secoli la civiltà islamica ha dominato nel mondo raggiungendo livelli di incomparabile levatura sotto tutti gli aspetti. (La Cina godeva di un simile livello di sviluppo, era però lontana e più chiusa). Poteva guardare con disprezzo all’inferiorità dell’Europa medioevale. Ma all’improvviso il rapporto cambiò. L’Europa cominciò ad avanzare enormemente sul piano culturale, fino ad acquisire una supremazia scientifica e tecnologica.
Per molto tempo i mussulmani ignorarono questo processo, nonostante cominciassero anche a subire sconfitte politiche e militari di grande rilevanza. Questi eventi venivano sottovalutati, come episodi non preoccupanti. Le élites islamiche si resero necessariamente conto che l’Occidente aveva sviluppato nuove armi e nuove capacità nelle tecniche di guerra, ma questo non li indusse a chiedersi da dove l’innovazione scaturisse: si limitarono a comperare materiali e competenze militari. Nel diciassettesimo secolo, il commercio europeo si sviluppò fino a controllare tutti i punti di arrivo e partenza degli scambi tra est e ovest. Questo formidabile sviluppo era frutto delle nuove rotte aperte dai navigatori, e dalla scoperta del Nuovo Mondo.
Solo allora la pericolosità del nuovo stato di cose si impose con una certa consapevolezza nel mondo islamico. Il mondo islamico –i Turchi soprattutto– cominciarono a interrogarsi per capire ‘che cosa avevano sbagliato’, e come potevano riparare.
L’attenzione del medio Oriente si concentrò dunque sul capire l’Europa in tutti gli aspetti che ne avevano determinato la supremazia: le armi e la tattica militare, il commercio e l’industria, i governi e la diplomazia, l’istruzione e la cultura, la struttura sociale.
Ed è quest’ultimo aspetto che porta al tema che qui interessa: la concezione del ruolo delle donne, intesa come uno degli aspetti cruciali di differenza tra le due civiltà, uno dei punti di debolezza rispetto all’occidente.
Nelle relazioni dei viaggiatori mussulmani in Europa (soprattutto Turchi) si trovano brani che rendono molto bene l’enorme distanza culturale. Così racconta Evliya Çelebi, scrittore turco che visitò Vienna nel 1665: “In questo paese ho visto uno spettacolo straordinario. Quando l’imperatore incontra una donna per strada, se lui sta cavalcando, ferma il cavallo e la lascia passare. Se l’imperatore è a piedi e incontra una donna, assume un atteggiamento cortese. La donna saluta l’imperatore, che allora si toglie il cappello per mostrare rispetto verso la donna. Dopo che la donna è passata, l’imperatore riprende la sua strada. E’ certamente uno spettacolo straordinario. In questo paese e in generale nelle terre degli infedeli, le donne hanno un’importante voce in capitolo. Sono onorate e rispettate (…)” .
La differente posizione sociale delle donne nei due mondi presentava un contrasto tanto violento da essere citata da quasi tutti i viaggiatori di una parte e dell’altra. I mussulmani che visitavano l’Europa parlavano con sbalordimento dell’immodestia e immoralità delle donne occidentali –senza che gli uomini ne fossero gelosi–, ma soprattutto sottolineavano l’incredibile libertà di cui godevano e l’assurdo rispetto loro tributato.
Nel mondo islamico le donne, insieme con gli schiavi e gli infedeli, costituivano i tre gruppi discriminati. Per quanto riguarda gli infedeli e, in parte, gli schiavi, i paesi europei avevano interesse a cambiare la situazione, soprattutto per quanto riguarda la parità di diritti per i Cristiani nei paesi mussulmani. Esercitarono quindi pressioni in questo senso. Nessuna potenza, invece, vedeva vantaggi tangibili nell’eliminare l’oppressione delle donne. Il processo di emancipazione venne dunque direttamente da donne e uomini dell’Islam.
L’interesse delle donne per la propria emancipazione può spiegarsi da solo, ma cosa spingeva alcuni uomini, figure politiche rilevanti, ad occuparsi di questo problema? I leader erano spinti da una visione pragmatica delle conseguenze negative derivanti dall’esclusione economica e sociale delle donne.
Uno dei primi documenti in cui si portano argomenti a favore dei diritti delle donne è l’articolo pubblicato nel 1867 da Namık Kemal, grande scrittore ottomano, leader dei Giovani Ottomani.
“Le nostre donne sono ritenute inutili per l’umanità, tranne che per lo scopo di avere figli; sono considerate semplicemente oggetti di piacere, come gli strumenti musicali o i gioielli. Ma costituiscono la metà e forse più della metà della nostra specie. Proibire loro di contribuire al sostentamento e al miglioramento delle condizioni di tutti con i loro sforzi, va contro le regole fondamentali della cooperazione sociale, a un livello tale che la nostra nazione ne è colpita come un corpo umano paralizzato su un lato. Eppure le donne non sono inferiori agli uomini per capacità intellettuali e fisiche. … Il motivo per cui le donne da noi sono così deprivate è la percezione che siano totalmente ignoranti e non sappiano nulla di diritti e doveri, benefici e svantaggi. Da questa condizione delle donne derivano molte conseguenze dannose, e la prima è che porta ad una cattiva educazione dei loro figli”. Queste posizioni portarono a vari miglioramenti nella condizione delle donne, ed emersero interessantissime figure femminili, fino al ruolo decisivo delle donne nella rivoluzione costituzionale in Persia tra il 1906 e il 1911.
L’aspetto che qui interessa riprendere è che l’impulso principale fu costituito proprio da necessità economiche, da un problema di risorse. Come Kemal aveva indicato, la modernizzazione dell’economia portava con sé nuove esigenze, tra le quali la necessità di contare anche sul lavoro femminile. La richiesta di lavoro femminile crebbe enormemente nell’Impero Ottomano durante la prima guerra mondiale. Con la maggior parte della popolazione maschile sotto le armi, le donne erano necessarie per mandare avanti le attività produttive e tutti gli aspetti della vita quotidiana. Conseguentemente si rese necessaria anche la loro istruzione: il numero delle studentesse nelle scuole superiori e all’università crebbe notevolmente).
A questo riguardo, la posizione più avanzata fu certamente quella di Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica Turca. In una serie di discorsi tenuti nei primi anni venti, portò eloquenti argomenti a favore della piena emancipazione delle donne. Il compito più urgente che indicava per la Turchia era raggiungere il livello di sviluppo del mondo moderno. Ma non è possibile raggiungere il mondo moderno se si modernizza solo metà della popolazione. Così i diritti delle donne divennero parte del programma politico del’Atatürk, ponendo la partecipazione sociale delle donne come una questione di risorse, la metà delle risorse sociali.
Un’altra parte del mondo islamico, però, intese la questione in modo diametralmente opposto. La modernizzazione è un male. Avere attuato politiche di modernizzazione è un vero e proprio crimine: di questo fu imputato dai fondamentalisti lo Scià. In particolare, come è noto, questa è stata la posizione dell’Ayatollah Komeini. Nei suoi discorsi prima e dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, indicò soprattutto l’emancipazione delle donne –mostrare la faccia e parti del corpo in pubblico, stare a contatto con gli uomini a scuola o al lavoro– come il peggiore tipo di occidentalizzazione e incitamento all’immoralità: un pericolo mortale per il cuore della società islamica, la casa e la famiglia.
Le conseguenze di questo sessismo, purtroppo attuato, sono visibili. Sono sotto i nostri occhi.
Prendiamo il documento “Arab Human Development Report 2000”, redatto da un gruppo di studiosi arabi, pubblicato dall’UNDP (United Nations Development Programme), che porta alle seguenti conclusioni.
La regione è più ricca che sviluppata: non vi è carenza di risorse, il reddito pro capite è più alto che nella maggior parte degli altri paesi in via di sviluppo. La barriera che impedisce di raggiungere il suo reale potenziale è costituita dalla grave mancanza di tre elementi : libertà (per la presenza di poteri centrali autoritari, non tenuti a rispondere del loro operato), istruzione (altissimo livello di analfabetismo e totale inadeguatezza del sistema scolastico) e potere di affermazione delle donne nella società. Ci fermiamo su quest’ultimo punto.
In quasi tutti i paesi arabi le donne non sono trattate né considerate legalmente come cittadini a tutti gli effetti. Ancora oggi metà delle donne arabe non sa né leggere né scrivere –costituiscono i due terzi degli adulti analfabeti–, la loro partecipazione alla vita sociale ed economica è la più bassa del mondo. In tutto questo il rapporto identifica un tremendo spreco: come può una società prosperare se soffoca metà del suo potenziale produttivo? E a questo va aggiunto lo svantaggio dell’educazione che i bambini ricevono da madri analfabete e costrette nell’ignoranza. La situazione economica dei paesi a regime islamico integralista sembra esserne la prova.
Probabilmente nessuno di noi ha dubbi sulla superiorità del nostro sistema anche a questo riguardo. E siamo convinti che il nostro sistema sappia efficacemente utilizzare le risorse. Se guardiamo ai fatti, però, il contributo delle donne ‘ al miglioramento delle condizioni di tutti’ tramite il loro lavoro (non domestico) appare limitato.
In Italia, nonostante una grande crescita del lavoro femminile , la percentuale di donne che lavorano è ancora bassa, circa la metà rispetto al tasso di occupazione maschile. Inoltre le donne che ricoprono ruoli dirigenziali sono poche, e pochissime quelle che arrivano a posizioni di vertice.
Dovremo chiederci perché. Non esistono motivazioni strutturali: le donne costituiscono oggi un’offerta lavorativa di alta qualità. Hanno una preparazione scolastica migliore degli uomini; sono più motivate –lavoro e carriera non sono per loro un obbligo sociale ma una scelta–; sono più determinate, perché per arrivare a posizioni dirigenziali devono superare una selezione più dura (una donna deve sempre dimostrare di essere brava, un uomo a pari condizioni deve eventualmente dimostrare di non esserlo).
Così come accade per l’Islam, ecco dunque un esempio di sistema economico che si autolimita. Un sistema che resta lontano dalle sue potenzialità perché si priva di buona parte delle energie e dei talenti disponibili, spesso i migliori, solo a causa di retaggi culturali.
Forse non siamo veramente così lontani dal modello Komeini. E abbiamo bisogno di riflettere sul modello Atatürk.
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“La limitazione del ruolo attivo delle donne danneggia gravemente la vita di tutti. Anche nelle attività economiche la partecipazione delle donne può cambiare profondamente le cose. Questa partecipazione attiva non genera solo dei redditi per loro; una condizione più elevata e una maggiore indipendenza delle donne comportano anche dei benefici per l’intera società. Il ruolo attivo delle donne ha una portata vastissima, eppure è uno dei settori degli studi sullo sviluppo più trascurati, e in cui una correzione è più urgente. Oggi, verosimilmente, nell’economia politica dello sviluppo niente ha un’importanza pari a quella di un riconoscimento adeguato della partecipazione e delle funzione direttiva, politica, economica e sociale, delle donne. Si tratta di un aspetto davvero cruciale dello ‘sviluppo come libertà’.”
(Pubblicato su Persone&Conoscenze, n°12 luglio-agosto 2005)